Dialogo con Daniela Nicolò / Motus sullo spettacolo Tutto Brucia
di Agnese Falcarin
- Tutto Brucia è una delle ultime produzioni dei Motus, uno spettacolo particolarmente adatto al tema voce e silenzio. È un lavoro molto concentrato sul suono, specialmente sulla voce: c’è il canto, c’è il grido, c’è la parola. Quale percorso è stato fatto per arrivare a questo risultato?
C’è anche un linguaggio inventato in un momento…
Rispetto ai nostri lavori precedenti, dove era sempre presente il video, che per noi non è mai stato un decoro ma una scelta drammaturgica sempre interrogata, qui è nato il desiderio di un azzeramento dell’immagine. Io schermo in pvc nero che fa da fondale, è “accartocciato” come un rudere di quell’immagine digitale che non c’è più. È uno spettacolo che concede poco alla vista e questa è stata una scelta molto diversa per noi che, a volte, siamo arrivati a saturare e sovraesporre. Potrebbe anche essere solo ascoltato ad occhi chiusi, infatti a settembre, uscirà un vinile con Bronson Recording che verrà presentato alla triennale di Milano, dove lo abbiamo registrato. Il lavoro sul suono si è sviluppato su più livelli. Abbiamo coinvolto una cantautrice, R.Y.F., Francesca Morello, che non aveva mai lavorato in teatro. L’abbiamo incontrata ad uno dei workshop preparatori dove lei ha inziato a improvvisare con la sua chitarra e addirittura a cantare, a partire dalle azioni delle attrici. Le canzoni dello spettacolo sono nate proprio così, sul campo. Poi i testi scritti direttamente in inglese da R.Y.F. (che vengono tutti dalla tragedia di Euripide) sono stati rielaborati anche con Ilenia Caleo, che ha collaborato alla drammaturgia. È un canto interno, originale, che nasce proprio dal suo sguardo su ciò che accadeva intorno a lei durante le prove.
- Si percepisce effettivamente, guardando lo spettacolo, la sintonia fra queste tre donne che vivono la scena.
È nata un’alchimia bellissima, dovevamo lavorare con più attrici all’inizio, poi, visto il rapporto che è nato fra R.Y.F. e Stefania Tansini con Silvia Calderoni, una presenza forte e importante, abbiamo deciso che loro bastavano. Tornando al suono, contemporaneamente al lavoro sulle canzoni, abbiamo lavorato anche con Demetrio Cecchitelli, un giovanissimo compositore di musica elettronica che improvvisava, anche lui, creando un background elettronico, rumori concreti e crolli di quella città che brucia intorno alle Troiane. A questo si aggiunge l’intervento di Enrico Casagrande che si occupa dell’amplificazione, del tessuto sonoro generale. Le attrici, infatti, sono sempre microfonate e questo dispositivo apre la possibilità di un discorso sul suono, sul silenzio, sui respiri e sul rumore dei corpi che viene captato e amplificato oltre la parola e va costituire un secondo livello. Poi naturalmente c’è la voce delle attrici. Silvia diventa Ecuba in un passaggio molto profondo per lei. È diversa dall’Antigone che aveva interpretato con noi dieci anni fa, qui fa una ricerca importante di asciugatura della parola compensata dallo sforzo fisico. Stefania invece, in quanto danzatrice pura e coreografa, non aveva mai parlato in scena. Per farla entrare nella parte le abbiamo chiesto di lavorare prima su una lingua inventata, una lingua del dolore, una “lingua oltre”. Il fatto di non venire ascoltata e compresa in questa dimensione quasi animale la avvicina subito al personaggio di Cassandra. E poi c’è il silenzio, la pausa, la sospensione… che non è mai un vero silenzio, c’è sempre un rumore di fondo molto lontano, c’è sempre la città che crolla.
- Da spettatrice e studentessa dell’accademia mi sono ritrovata per la prima volta a dare la precedenza al suono rispetto all’immagine. Ci sono altri vostri lavori che hanno avuto una riflessione così profonda sul tema del silenzio?
Sul silenzio in sé è raro, per noi è sempre stato “noise”. Tantissimi anni fa abbiamo fatto un progetto, nella serie Rooms, sul rumore bianco. Il silenzio non è mai davvero silenzio. Quello che c’è negli spazi chiusi può essere il ronzio di un frigorifero, o l’impianto di condizionamento che poi rappresenta il rumore dell’occidente, del consumismo, del sistema capitalistico. Poi abbiamo fatto un altro lavoro intitolato Rumore Rosa, termine che indica le frequenze artificiali utilizzate dai tecnici del suono per evidenziare la curva di equalizzazione ottimale in un ambiente, chiamato così in contrapposizione al rumore bianco. Qui il rumore è freddo e tagliente come la scenografia glaciale, realizzata in animazione, che lo ospita. È uno spettacolo ispirato all’intero universo di Fassbinder e legato alla dimensione claustrofobica dei personaggi all’interno di una stanza. In realtà tutti i nostri lavori sono fortemente sonori. Un altro progetto per me molto importante come lavoro di passaggio è stato Let the sunshine in, uno dei contest sull’Antigone, dove non c’era colonna sonora ma tutto il suono proveniva dall’amplificazione dei corpi e dell’ambiente attraverso i radiomicrofoni.Il silenzio totale non lo abbiamo mai toccato. Forse c’è stato un solo momento, alla fine de L’ospite, il lavoro su Teorema di Pasolini, che finiva con un video girato nel deserto nel quale l’ attore protagonista, che interpretava il padre di Teorema, si spogliava e si allontanava nel vuoto. Questo video partiva con l’audio dell’attore che urlava e progressivamente veniva abbassato il volume fino a diventare un film muto con un “grido inascoltabile”, per citare Pasolini.
- Grido che torna in Tutto Brucia, Ecuba grida e porta fuori di sé un dolore di tutti, grida anche per il pubblico che però non è abituato a sentirlo… quali sono state le reazioni?
Il grido è nato da un’azione di Silvia, è un urlo che esorcizza, mentre trascina fuori scena un corpo morto e sul quale si innesta quello di Francesca che lo armonizza. È un momento estremamente liberatorio anche per le attrici. Nelle Troiane effettivamente c’è il pianto. C’è tanto pianto, compianto, lutto. Però l’urlo di Ecuba è quasi animale, va da un’altra parte. Nel monologo finale di Silvia la sua voce viene effettivamente alterata, è un monologo che parla di trasformazione. E non è un caso che noi dopo Tutto Brucia abbiamo sentito la necessità di fare un focus su Ecuba con You were nothing but wind, che è una piccola performance con solo Silvia Calderoni/Ecuba concentrata sul divenire animale… La parola diventa latrato, nella performance ci sono resti di un testo che è quasi inascoltabile: è una fortissima improvvisazione sonora fra Silvia ed Enrico che lavora sui suoi versi disumani alterandoli e amplificandoli. Il pubblico ne esce davvero scioccato.
- Questo spettacolo mi sembra molto legato alle tragedie della realtà contemporanea…
Il progetto era iniziato già prima del 2020, con tutto un altro intento, più documentaristico. L’idea era quella di andare a incontrare donne che sono arrivate dalla Libia, donne uscite dal sistema della tratta e sexworkers provenienti dal continente africano. Poi la pandemia ha cambiato il percorso di questo lavoro, in primis perché non c’era la possibilità di mettersi in contatto con tutte queste persone. Abbiamo fatto diverse residenze per arrivare a questo risultato e sicuramente ne siamo molto soddisfatti. Il teatro deve sicuramente dialogare con il suo tempo e questo può avvenire in modi diversi . Nel caso di Alexis. Una tragedia greca avevamo fatto un lavoro legato alla raccolta di materiale sul posto. C’erano le rivolte, siamo andati in Grecia, abbiamo fatto interviste e video restando in contatto con gli attivisti in maniera più diretta. Nel caso di Tutto Brucia, invece, è stata più una forma di empatia emotiva con il contemporaneo a guidarci. Da un lato c’era la pandemia ma, dall’altro, sbarchi e naufragi continuavano ad avvenire. È stata una scelta quella di tenere i riferimenti al contemporaneo in sospeso. Abbiamo toccato le tematiche principali, emotivamente e politicamente, ma non le abbiamo mai nominate in maniera diretta. Chi vede lo spettacolo oggi, con la guerra in corso, associa immediatamente le immagini alle donne ucraine profughe, e si commuove: ci hanno addirittura chiesto se la gonna gialla con la camicia azzurra indossate da Silvia le abbiamo scelte apposta… ma il lavoro è nato ben prima di questa maledetta guerra, in reazione proprio alle tante guerre del mondo. Questo mi conferma che se un lavoro tenta di mettersi in contatto con il contemporaneo viene sentito dal pubblico in modi molto diversi, perché è stato concepito in forma aperta e non didattica e può prestarsi a differenti interpretazioni, che è poi quello che abbiamo sempre cercato nel nostro teatro. Per quanto riguarda il progetto iniziale più documentario, che abbiamo abbandonato, apre invece una nuova questione, assai delicata: riguarda il nostro essere dei bianchi, privilegiati che vanno a fare interviste e raccontano storie che non sono loro… Questo ci ha fatto arretrare, perché bisogna stare molto attenti a non sovrapporre le nostre visioni su mondi che hanno le proprie ed è giusto che emergano con la loro voce… Condividiamo la domanda qui, lasciandola come questione aperta…
immagine in evidenza: Tutto brucia, fotografia di Claudia Borgia.