di Riccardo Incampo
La parola, la voce articolata in linguaggio, è ciò che ci ha resi umani. Se siamo all’apice della catena alimentare, lo dobbiamo alla nostra capacità di creare, nel corso delle generazioni, una “memoria collettiva”, una serie infinita di esperienze che ogni generazione eredita dalla precedente. Questa conquista risale a circa 13 milioni di anni fa, quando alcuni CHLCA (chimpanzee/human last common ancestor – ultimi antenati in comune fra noi e scimpanzé), forzati per qualche ragione a scendere dagli alberi, hanno dovuto formare coalizioni affinché potessero sopravvivere ai predatori.
Il legante di queste coalizioni fu proprio la parola, uno strumento rapido e flessibile che potesse spiegare grandi concetti con il minimo sforzo. Per fare chiarezza: la parola non è una conquista rapida. Anzi, prima di poter essere definita tale, è stata, per molto tempo, una serie di elementari codici vocali che, man mano, hanno acquisito profondità, fino a guadagnarsi la completezza che oggi le riconosciamo.
Contestualmente alla parola, nasce anche l’immaginazione e tutti i concetti che ne derivano. Nasce l’uomo. Da qui in poi, gli uomini non hanno mai smesso di dar voce ai propri pensieri. Hanno, anzi, ampliato le proprie possibilità comunicative. Le innovazioni, possibili grazie alla parola, ci hanno concesso il lusso di comunicare con tutto il mondo.
Rimangono certamente alcune barriere, specie quelle di tipo linguistico, ma possiamo ritenere il mondo finalmente e totalmente, nel bene e nel male, interconnesso.
E se, però, non ci fermassimo a noi?
E se volessimo cominciare a comunicare con altre forme di vita al di fuori del mondo?
Le limitazioni tecnologiche non ci permettono ancora una ricerca a larghissima scala (relativamente alla grandezza dell’universo), ma numerosissimi sono stati gli esperimenti condotti negli anni. La maggior parte di questi consiste nel lanciare messaggi audio nello spazio. Infatti, un’onda lanciata direttamente nell’universo non cessa mai di esistere, se non fino al raggiungimento di un bersaglio. Il più famoso di questi esperimenti è sicuramente quello del Messaggio di Arecibo, un radiomessaggio lanciato nello spazio nel 1947 dal radioscopio di Arecibo e indirizzato verso l’Ammasso Globulare di Ercole, a 25000 anni luce di distanza.
L’audio, tradotto in codice binario, è composto da 1679 cifre che, se disposte su una griglia da 23 righe e 73 colonne, compongono il crittogramma di Drake, un’immagine che cerca di spiegare ad un interlocutore alieno cosa è un essere umano. In pochi bit, vengono rivelate informazioni riguardo la nostra forma, il nostro DNA, il nostro sistema numerico e il nostro sistema solare.
Può un alieno interpretare tutto questo?
La risposta è chiaramente sconosciuta. Seppur il messaggio utilizzi, come base, l’unica lingua comune a tutto l’universo, la matematica, è innegabile che sia di difficile comprensione e interpretazione.
Questo messaggio non conosce le fattezze del proprio ipotetico interlocutore: ammesso ne trovassimo uno, saremmo abbastanza simili affinché questi possa vedere nel crittogramma qualcosa al di fuori di rumori casuali?
A questa critica si potrebbe tranquillamente obiettare che lo scopo del messaggio è quello di cercare forme di vita simili e che si presuppone conoscano, in partenza, quantomeno l’utilizzo della matematica.
Avrebbe senso stabilire una comunicazione con qualcosa-qualcuno con cui non condividiamo nulla?
Un’altra domanda possibile, però, guarda il problema più da lontano: dovremmo cercare altre forme di vita nell’universo o dovremmo restare in silenzio?
Il contatto con una civiltà aliena potrebbe essere distruttivo per il nostro pianeta.
Secondo una parte della comunità scientifica, dovremmo smettere di lanciare segnali nello spazio finché siamo in tempo.
Prendiamo come esempio la storia dell’umanità: quando due civiltà si sono incontrate, la più avanzata in termini tecnologici ha sempre calpestato (se non annientato) la più primitiva. “Una civiltà che riceve i nostri messaggi potrebbe essere miliardi di anni avanti, e potrebbe non vederci più valenti di come noi giudichiamo i batteri.” – queste le parole di Stephen Hawking al lancio di Breakthrough Listen, un’iniziativa da 100 milioni di dollari lanciata nel 2015 il cui scopo è cercare vita nello spazio.
D’altro canto, però, potrebbe essere ormai troppo tardi per questo tipo di osservazioni. Da mezzo secolo circa, ormai, l’uomo produce in continuazione onde radio che avrebbero già segnalato la nostra presenza a forme di vita lontane e in ascolto. In ogni caso, lo stesso Stephen Hawking, nel corso dello stesso intervento, ha poi aggiunto:
“Sono qui perché credo che [trovare forme di vita aliene] sia di cruciale importanza.
Per conoscere l’universo, dobbiamo conoscere gli atomi e tutte le forze che agiscono su di loro. […] ma ciò non è abbastanza. […] Per conoscere la luce, devi conoscere la vita, le menti. […] Da qualche parte nell’universo, qualcuno potrebbe star guardando la nostra luce. […] E’ tempo che troviamo la risposta, che troviamo vita al di fuori della terra.
Noi siamo vita. Siamo intelligenti. Dobbiamo sapere.”