Testo e fotografie di Lucia Severino
“Abbiamo bisogno di mandare un messaggio al mondo intero, riguardo la terribile violazione di diritti umani in Myanmar.
Il silenzio è il grido più assordante. Vogliamo indietro i nostri diritti.
Vogliamo la rivoluzione. Nel silenzio vogliamo esprimere tristezza per i nostri eroi caduti.”
Tayzar San
Uno dei leader delle proteste della città di Mandalay
Cosa accadrebbe se un intero Paese si mettesse d’accordo in modo tale che per un giorno nessuno uscisse di casa, così da creare una forma di silenzio nelle strade delle città, solitamente trafficate e affollate?
E’ ciò che hanno deciso di attuare cittadine e cittadini della Birmania, il 10 dicembre 2021 in occasione della Giornata dei Diritti Umani.
Dal primo febbraio del 2021, a seguito del colpo di stato della giunta Militare, il Tatmadaw, si sono diffuse in tutto il Myanmar proteste di massa e azioni di disobbedienza civile non violenta, che fin dai primi giorni sono state represse con durezza dai militari. Il format dello sciopero silenzioso aveva già avuto luogo il 24 marzo 2021, in conseguenza all’escalation di reazioni brutali da parte dei militari durante le manifestazioni quotidiane.
Da allora l’opposizione rimane diffusa e le persone continuano a trovare modi nuovi e pacifici per sfidare la giunta, ma è nata anche una resistenza armata composta da forze di difesa popolare.
Alcuni giorni dopo che i militari hanno preso il potere il 1° febbraio, è nato il movimento di disobbedienza civile CDM (Civil Disobedience Movement), che ha visto scioperare dipendenti governativi di ogni categoria.
“Possediamo la nostra città. Rimanere attivi o in silenzio, è la nostra scelta. A loro [giunta militare] non sarà assolutamente permesso di governare”.
Uno slogan associato allo sciopero
Lucia Severino, Sign (dettaglio).
Anche il personale medico ha lasciato il lavoro, e a seguito della terza ondata di COVID_19, il sistema sanitario pubblico del Paese è allo sbando.
La mancanza di acqua aggrava la situazione di emergenza.
Sono già in atto eventi metereologici estremi, tra cui inondazioni, cicloni, tsunami, forti piogge monsoniche, mareggiate e siccità. Infatti, un’ulteriore sfida per il Paese è quello di essere uno dei paesi più vulnerabili al mondo in termini di impatto dei cambiamenti climatici.
Ad oggi, secondo i dati dell’AAPP (Assistance Association for Political Prisoners) del 6 aprile 2022,
ritenuti tra i più attendibili, dall’inizio del colpo di stato sono stati arrestati circa 13.112 civili, inclusi politici, attivisti, e giornalisti e le vittime sono circa 1.730, anche se probabilmente la cifra è sottostimata (secondo l’ONG “Altsean Burma”, i morti sarebbero almeno 2.053).
Se si considera che:
La più lunga guerra civile nel mondo sta avendo luogo in Birmania (Il conflitto di Karen, dal 1949); i cittadini birmani sono tra i più perseguitati al mondo; (I Rohingya non sono riconosciuti tra le 135 minoranze ufficiali della Birmania, di conseguenza, sono soggetti a diverse discriminazioni);
I militari birmani hanno violato i diritti umani internazionali innumerevoli volte (ad esempio la tortura è una pratica diffusa e sistemica) commettendo in passato e perpetrando ancora oggi genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra;
la più lunga interruzione di Internet al mondo, si è verificata proprio in Birmania.
Allora verrebbe spontaneo chiedersi: perché non se ne parla? Come mai non c’è un’attenzione internazionale sulla “questione birmana”?
Il quesito però non sorge e questa situazione sta in cima alle priorità soltanto delle persone che vivono in Birmania. Più sono distanti le questioni più sembrano fumose e incomprensibili.
Questa condizione in Birmania, infatti, è tutto meno che normale. Ma nel contesto politico attuale, sembra che ci si stia abituando sempre di più alle realtà censorie e autoritarie di vari governi. Il rischio è quello di dimenticare come questo tipo di oppressioni spietate dovrebbero generare una reazione nel resto del mondo.
Il silenzio delle persone in Birmania, simbolico, di protesta, in forma di dissenso e di lotta perpetua, contrasta con il nostro silenzio indifferente e forse anche colpevole di non riuscire a metterci in ascolto del grido di aiuto, di non riuscire a considerarlo degno di attenzione e di un’azione consistente verso un popolo sofferente.