di Ave Appiano
Ogni azione umana espressa nello spazio risponde, dalla più remota antichità, a un archetipo, a un’idea ancestrale, a un paradigma ideologico che collega l’organizzazione sociale al divino.
Dalle testimonianze megalitiche preistoriche, il processo di aggregazione umana e urbanizzazione si rivela intrecciato al senso del sacro e al culto dei morti. Dai tracciati urbanistici dell’area templare della polis greca antica, basati su assi ortogonali adattati alle caratteristiche orografiche del luogo (secondo il principio di Ippodamo di Mileto, l’urbanista citato da Aristotele), lo schema geometrico a griglia adattabile alla sagoma del territorio si trasformò in quello del castrum romano.
È in epoca medioevale che, con la formazione delle borgate in campagna in cui si vedevano coagulare piccole aggregazioni intorno a un monastero o a una pieve, si disgregarono le strutture urbanistiche a scacchiera, dando una nuova configurazione al concetto di centro/periferia di fronte alla quale non si può non fare considerazioni di carattere urbanistico, su un piano antropologico e storico.
Esigue realtà contadine, tessendosi nel tempo con vicende storiche disomogenee e con la formazione dei comuni, diedero vita a un nuovo modello urbanistico “spontaneo” a rete fluida, adattabile a collegare i vari nuclei abitativi in un unico corpo legato a una diocesi e dotato di chiesa parrocchiale capace di raccogliere un numero più elevato di fedeli. È il caso di quei piccoli agglomerati disposti a costellazione intorno a un unico nucleo urbano che nei secoli successivi con il patrocinio di facoltosi benefattori – soprattutto in età barocca -, pur conservando gli originari impianti medioevali, furono dotati di un polo attrattivo, un cuore teologico ed estetico, con progetti spesso assegnati a grandi architetti o a maestranze di costruttori e decoratori di grande pregio e esperienza.
La convergenza fra il Bello e il Bene, fra ricerca estetica e verità che si era oramai consolidata come valore, divenne la sigla visiva, la sua tipizzazione paesaggistica e caratterizzazione urbanistica.
Un progetto rinascimentale all’avanguardia.
Ma è in pieno Rinascimento che avviene la grande svolta dell’ideazione urbanistica e di una visione congrua del rapporto centro/periferia. Bisogna infatti risalire a una eccellente innovazione urbana, effettuata tra il Quattrocento e il Cinquecento nella città di Ferrara, secondo un piano urbanistico che la trasformò profondamente grazie a quella che fu chiamata Addizione Erculea (1492-1510) progettata dall’architetto Biagio Rossetti. Il piano urbanistico, voluto e iniziato da Ercole I d’Este, aveva come obiettivo la riqualificazione della precedente struttura medievale, fatta di stradine strette, tortuose, spontanee e quasi priva di piazze, con una città moderna, costituita di ampliamenti ed estensioni.
Si trattava di una visione umanistica, ispirata a quel modello di “città filosofica” che Plotino descrisse nelle Enneadi, dedicandola a Platone, e che avrebbe denominato Platonopoli. La grande novità della nuova trama urbana di Ferrara fu che, oltre al rinforzo del sistema difensivo, la città potesse trovare una nuova espansione dopo l’assedio da parte della Repubblica di Venezia, e ritornare a crescere e prosperare, inglobando la periferia in una nuova concezione di espansione urbana. Biagio Rossetti, architetto e urbanista degli Estensi, autore del disegno, progettò prolungamenti viari per la città, partendo proprio dal centro strutturato sulle vecchie direttrici e tracciando così una griglia ortogonale di memoria romana, che pur rispettando le impronte del modello a Castrum di Vitruvio, portasse a un risultato di respiro più moderno che ne consentisse l’espansione.
Nel progetto rossettiano la città doveva poter dialogare con la campagna attraverso spazi verdi, giardini, frutteti, orti, parchi ma anche piccoli spazi agresti, con l’intento di integrare il tessuto sociale del centro signorile con quella dei sudditi, del ceto che lavorava la campagna. Fu così che iniziò a essere rivalutata la vocazione del giardino botanico nella città, idea innovativa che poi nell’Ottocento fu ancor più potenziata ed estesa nella campagna, e che riprese, grazie a questa valorizzazione, a essere fortemente produttiva, su quel modello neoplatonico di osmosi natura-cultura che sarebbe stato apprezzato da Plotino, rigidamente vegetariano.
La piantumazione di meleti fu una delle colture più pregiate di queste aree e ancora oggi il Melo Durello di Ferrara (Malus domestica Borkh), una varietà di mela autoctona dell’Emilia Romagna dalla raccolta tardiva e dalla colorazione verde pallido con piccole striature rossastre, è quella che rientra a pieno titolo come mela storica di Ferrara, da cui il suo dolce tipico, la deliziosa torta di mele. Se è vero che ogni cibo ha una storia, una tradizione, una origine nel mito, nella fiaba o nella leggenda, nell’arte, nella musica o nella letteratura, anche la torta di mele, dolce tipico di Ferrara, possiamo dire abbia un’origine eroica, così strettamente connessa all’architettura o meglio all’urbanistica rinascimentale.
Ferrara divenne così per tutti la prima città moderna d’Europa e la torta di mele fu il suo goloso “marchio”, la sigla storica e leggendaria dell’integrazione filosofica fra centro e periferia, l’espressione dell’Addizione Erculea e della sua innovazione urbanistica all’avanguardia.
La straordinaria ideazione di Le Corbusier.
Ecologia e bellezza sono attualmente all’apice delle più avanzate ricerche in campo tecnologico, urbanistico e architettonico. Tra i primi a occuparsi di equilibrio tra idea e tecnologie, qualità della vita e spazio sociale ci fu Le Corbusier che nel 1951, con un progetto urbanistico d’avanguardia, ideò la città di Chandigarh, capitale del Punjab, nel nord dell’India.
Cemento a vista, valorizzazione dell’ombra e della ventilazione naturale proveniente dalle pendici della catena subhimalayana dei monti Siwalik, su cui si adagia il grande organismo urbanistico, sono le caratteristiche essenziali del progetto, utopistico quanto razionale, che doveva essere pensato come un gigantesco corpo umano, reale e nel contempo metaforico.
Il modello concettuale del corpo umano, caro a Le Corbusier che con l’ideazione del Modulor aveva già anticipato una visione osmotica e proporzionale fra uomo e architettura, esprime in questa realizzazione un vero e proprio “corpo urbanistico”: verso le montagne è orientata la testa del gigante di cemento, il centro nevralgico, il Capitol complex, dove hanno sede gli edifici pubblici, il Parlamento, il Segretariato
e gli organismi di carattere sociale; il tronco a impostazione rettangolare contiene le unità abitative suddivise in quartieri ortogonali; i polmoni sono le aree verdi; il sistema circolatorio è rappresentato dalla rete stradale, con sezioni separate fra circolazione automobilistica e vie pedonali; le viscere costituiscono le aree assegnate agli insediamenti produttivi che forniscono le energie economiche per la vita sociale.
Il progetto per Chandigarh, la “città d’argento” del XX secolo, divenuta il laboratorio architettonico di Le Corbusier per le spiccate caratteristiche di ecocompatibilità, spirito di innovazione ed espressione della sua summa poetica e costruttiva, costituisce una sintesi perfetta di città ideale, concetto eccelso che raramente ha avuto esemplari concreti dopo i piani urbanistici realizzati nel Rinascimento e che a sua volta si è costituita modello per il progetto di Brasilia, realizzato da Oscar Niemeyer, uno dei suoi più celebri allievi.
Il principio filosofico, ideativo e costruttivo di Chandigarh doveva essere quello di una interconnessione sostanziale fra centro e periferia in quanto organismi “viventi” in dialogo costante, parti di un tutto gestaltico equilibrato e interattivo.
Immagine in evidenza: Pianta dell’Addizione erculea di Ferrara