Come un centro dei primi hominidi e una città potente fino al XV secolo diventa una periferia della storia, mantenendo sempre un fulcro spirituale
di Renato Sala
Storia del sito archeologico
1 – Il sito di Dmanisi (Patara Dmanisi, Kvemo Kartly region, Georgia, 85 km a sud-ovest di Tbilisi, 1250 m) ospita i resti dei primi ‘hominidi’ scoperti su suolo eurasiatico. Negli ultimi 40 anni, nel corso degli scavi di una struttura medievale, a poca profondità, in un’area di pochi metri quadrati, sono stati esumati cinque teschi umani e migliaia di strumenti litici datati tra 1.85-1.77 milioni di anni fa. I teschi sono tutti attribuiti, per analogia morfologica, ad una stessa sub-specie di hominidi: ‘Homo erectus georgicus’ (1.85-1.77 milioni AC) (Fig. 1)
Nella regione, si ritrovano tracce di attività vulcanica e colate laviche fino all’apparizione di questi primi umani. Il suolo era dunque ed è ancora fertile. Un clima e un ambiente temperati e stabili perdurano nei millenni successivi costituendo un rifugio permanente abitabile anche durante periodi glaciali. Il sito giace su un promontorio elevato e ben difendibile, alla confluenza dei fiumi Mashavera e Pinezauri, che si sviluppa per 500 metri in direzione Nord Est.
La comunità dei primi hominidi di Dmanisi sopravvisse 6000 anni. Avevano residenza semi-stanziale con spostamenti dettati dalle transumanze delle prede animali. Si suppone che fossero dispersi in gruppi di 10-20 persone costituenti di per sé un sistema di piccoli centri interattivi, nel contesto di un’illimitata periferia di paesaggio primevo. Dopo di loro il sito certamente accolse altre sub-specie homo ma, per ora, testimonianze archeologiche di ulteriore presenza umana sono separate da un lungo intervallo temporale.
2 – Qui tracce di umani riappaiono solo nel periodo calcolitico (5000 AC), umani impegnati nei primi passi della costruzione di un paesaggio produttivo e ‘industriale’, nella ricerca e sfruttamento di uno dei più ricchi distretti metallurgici del Caucaso, inclusivo di giacimenti d’oro, argento, rame, stagno, ferro e ossidiana. L’uso del metallo diviene prominente con l’età del bronzo (cultura Kura-Araxes, 3400 AC) e la struttura spaziale del paesaggio si definisce e complessifica: villaggi e tombe coprono ora il promontorio centrale e miniere costellano le sue periferie. Una tomba circolare datata al Bronzo finale (VIII secolo AC) accoglie i resti eccezionali di una donna di 35-40 anni giacente supina in posizione di loto, senza corredo funerario. Con l’età del ferro (VII secolo AC) un sistema ben integrato di attività metallurgica si espande dalla regione di Kvemo-Kartly diagonalmente verso Sud Est attraversando tutta l’Armenia; e culmina durante il basso medioevo (VI-VIII secolo DC) con l’attivazione di un sistema di trasporto carovaniero interregionale che prende il nome di “Camel Road”.
3 – A partire dal IX secolo DC, insieme a Samshvilde, Tbilisi e Mtskheta, Dmanisi rappresenta uno dei più importanti insediamenti metallurgici e commerciali di tipo urbano della regione, dotato di fortezza e cattedrale (basilica di Sioni), governato successivamente dal Califfato Arabo e dal regno di Armenia. Nel 1080 la città è per breve tempo conquistata dai Turchi Sejuk che lasciano in situ stupende pietre tombali zoomorfiche (Fig.2); e nel 1123 è liberata da Davide IV di Georgia (David the Builder), il sovrano più importante e di maggior successo della storia della Georgia, che la trasforma in una vera city. Dmanisi diventa allora una città di 13 ettari, multietnica e multireligiosa, dotata di fortezza regale e importanza strategica, con tanto di mura, cattedrale, esteso cimitero, quartieri residenziali, zecca e sistema idraulico. Combinando metallurgia con pastorizia, agricoltura e industria, essa costituisce un centro capace di produrre e distribuire articoli di lusso (metalli, vetri, tappeti, tessuti), ceramiche, cuoio, alimenti e vino e promuovere lo sviluppo di un’estesa periferia.
Con la fine del XV secolo, devastata da Tamerlano e dai Turcomanni, Dmanisi non è più menzionata come città ma come fortezza associata ad un villaggio. Il castello continua ad essere abitato fino alla fine del XVIII secolo. La cattedrale ortodossa di Sioni (o della Santa Vergine), nonostante la decadenza della città, sopravvive come sede episcopale fino al 1750 e viene poi reintegrata nel 2003, circondata da altre piccole chiese, mausolei e dai cimiteri cristiano (Georgiano e Armeno) e islamico. La piccola chiesa di Santa Marina, con singola navata longitudinale affrescata da figure annerite dalle candele e dal tempo, è dedicata al culto di una santa monaca paleocristiana; quella di San Tevdore, locata nel cimitero, è associata a riti di sepoltura cristiana e commemorazione dei morti.
4 – Nell’aprile 2023 ho incontrato l’ultimo abitante di Dmanisi. È un monaco ortodosso, ordinato sei anni fa ma abbastanza anziano da presagire che da qui non si sposterà più. Il suo nome è padre Makari. Si prende cura dei monumenti religiosi e produce il miglior miele del mondo e un ottimo vino. In quanto solitario, è rimasto l’unico centro vivente del sito e, come i suoi antenati paleolitici, si sente immerso in una periferia esteriore di dimensione planetaria.
Topologia della relazione spaziale centro-periferia
I concetti di centro e periferia sono metafore spaziali molto significative, generalmente usate per designare la relazione tra un centro metropolitano avanzato e una periferia meno sviluppata. Tale definizione ben si applica ai quattro casi sopraelencati, ove i due concetti si riferiscono a schemi abitativi umani concreti e per centro si intende il polo a più alta concentrazione di persone, attività e comando.
Ma, fuori metafora, potremmo usare un linguaggio topologico più formalizzato e preciso, prendendo in considerazione uno spazio astratto discreto disomogeneo bipartito in due poli rispettivamente dotati da alti e bassi gradienti di densità nodulare. In tal caso la forza semantica dei due concetti si allarga fino a descrivere casi di bipartizione e bipolarizzazione in spazi di varia natura (geologica, biologica, ecologica, etc.), perfino psicologica, mentale, spirituale, oppure totalmente artificiale e virtuale (pittorica, matematica). Il modello può essere complessificato considerando, in entrambi i poli, variazioni temporali di densità tali da descrivere cicli di crescita, pienezza e diminuzione, fino a livelli estremi prossimi all’estinzione della bipartizione stessa. In tal modo può essere ricostruita la dinamica di passaggio tra i quattro casi elencati, dall’azione collettiva di un gruppo espansivo di protagonisti alla sua riduzione alla presenza di un solo individuo. A questo punto, nella persona isolata, nel silenzio di una solitudine indisturbata dal vociferare delle interazioni sociali, la bipartizione dello spazio in esterno e interno si intensifica e l’interiorità si esalta, portando a coscienza gli aggregati fisici e mentali dell’ego, la loro impermanenza e la loro mortalità. Finalmente, in questo spazio interno dove la persona si trova faccia a faccia non con oggetti materiali ma con le sue concezioni mentali, la relazione centro-periferia si inverte. La persona va in periferia e la visione al centro: un centro soverchiante e implosivo che assorbe la periferia fino alla sua totale estinzione, con il conseguente annullamento della dicotomia stessa. Tale caso è esemplificato da quanto segue.
La morte come irreversibile interiorizzazione teleonomica delle relazioni spaziali
Padre Makari mi ha aperto le porte della chiesa di Santa Marina e della cattedrale di Sioni (Fig. 3) e da qui mi ha introdotto nella sua navata a tre campate affrescata da impressionanti figure annerite dalle candele e dal tempo (Fig. 4). Tra le varie immagini, mi ha indicato l’icona che disegna la via ottimale dei morenti e che di Makari ispira il sentiero spirituale. Di botto lo spazio ha mutato la sua natura, passando da spazio paesaggistico esterno in spazio interno, mentale e spirituale. All’ interno la bipolarità spaziale si è mantenuta ma invertendosi, e, sia padre Makari che il sottoscritto, da centri contemplanti siamo stati trasformati in periferie ancora viventi di un centro spirituale prepotente, composto di morti.
L’icona rappresenta Maria dormiente e poi assunta in cielo, circondata da santi, luci e lettere sacre. Su tre piani: nel primo piano la Santa Vergine è ritratta giacente come morta, ma aureolata e circondata da alcuni discepoli addolorati; nel secondo piano essa è rappresentata vivente e bambina nelle braccia di Gesù; nel terzo piano di sfondo appaiono lettere sacre su un cielo d’oro (Fig. 5). In Iberia-Georgia, la Vergine Maria (Mariami) è una santa di primaria importanza, assegnata da Dio alla divulgazione del cristianesimo nella regione. Ciò si accorda con la leggenda del trasporto angelico della sua casa natale e con il fatto che le prime protagoniste dell’attività di conversione cristiana furono soprattutto donne (Santa Nino, 296-338 AD). Mariamoba è il nome di una delle più importanti festività della Georgia, festa della dormizione e assunzione di Maria, e cade il 28 agosto. La contemplazione dell’icona ci inserisce in uno spazio interno, mentale, che propone un viaggio spirituale attraverso la morte. Gravitiamo con le immagini dalla nostra periferia materiale verso uno stato disincarnato di morte parziale e, di qui, verso un compimento assoluto. Padre Makari ha forse ragione: oltre la morte si dà ancora spazio, ma fatto di coscienza, di una sola via, senza strade e direzioni alternative. Nel morire, la nostra condizione, più che mai periferica, non può che ridimensionarsi e gravitare unidirezionalmente verso il centro assoluto. Infatti un viaggio simile è descritto in molte religioni e, in forma altamente complessa, nell’insegnamento (dharma) del Buddha. La meditazione-preghiera in vita è la luce bianca del sentiero, ove luci-immagini e suoni-lettere sono guide, rispettivamente equivalenti a yantra e mantra; la morte (la nostra morte, la morte di Maria) è decomposizione degli aggregati materiali grossolani ma persistenza di un corpo eterico; il processo del morire e il viaggio ulteriore della morte (bardo) sono trasferenza dell’io nel cuore di Amitabha (Buddha della compassione, o, per i cristiani, Gesù); oppure, più direttamente, sono diluizione finale nella luce sfolgorante della verità (sfondo dorato dell’icona).