Decolonialidad del saber y de la naturaleza tra fiere e biennali d’arte in Italia

di Nemi Ferrara

Nel mondo globalizzato attuale, caratterizzato da scambi internazionali e migrazioni, la cultura e il linguaggio sono in costante trasformazione, certe parole circolano rapidamente e alcuni saperi si impongono sugli altri. Verso gli anni Novanta la critica latinoamericana iniziò a parlare di colonialidad, (Quijano 1992), per indicare la colonizzazione dell’immaginario e la repressione culturale derivanti dal colonialismo. Tra le varie forme individuate, quella del saber si espresse attraverso la scienza occidentale, che organizzò il mondo secondo la visione del colonizzatore al fine di giustificarne la missione civilizzatrice delle popolazioni assoggettate, considerate primitive e arretrate. Una scienza dunque tutt’altro che neutrale ed oggettiva, il cui pensiero universale si rivela, in realtà, il frutto di un’epistemologia eurocentrica e razionalista che nei secoli è riuscita a marginalizzare tutte le altre (Lander 2000). La colonialidad de la naturaleza a sua volta si manifestò con la subordinazione della natura del Nuovo Mondo, che venne sfruttata a tal punto da portare alla distruzione della biodiversità, a lungo conservata dalle popolazioni native, per impiantare monoculture per l’esportazione. I saperi indigeni provenienti dal Sud Globale raramente vennero riconosciuti come tali dalla società capitalista-liberale, ma oggi l’arte contemporanea ne ha garantito la diffusione anche nel Nord Globale. Artissima Relations of Care (2023), infatti, trasse ispirazione dall’articolo di Renzo Taddei, Intervention of Another Nature, in cui scrisse: “è importante capire che, in un luogo in cui ogni cosa è potenzialmente un soggetto, la natura non esiste (t.d.a)”. L’antropologo brasiliano apprese da Davi Kopenawa la filosofia indigena e come in essa la cura abbia la precedenza sul sapere, il quale a sua volta diventa legittimo solo se inserito in una dimensione di cura. Il messaggio dello sciamano del popolo Yanomami in difesa dell’Amazzonia, già noto per La caduta del cielo e Lo spirito della foresta, è approdato a Venezia qualche giorno prima dell’apertura della Biennale d’Arte del connazionale Adriano Pedrosa: un’edizione ricca di artistə migranti e indigenə. Pinacoteca Migrante di Sandra Gamarra Heshiki, ospitato nel Padiglione Spagna, svela narrazioni spesso taciute o misconosciute. La sezione Tierra Virgen mette in discussione l’immagine della terra inabitata e pronta all’uso promossa dalle rappresentazioni di vedute romantiche di epoca coloniale, che non recano traccia del lavoro forzato di innumerevoli schiavi africani e nativi.

L’artista sovrappone ai paesaggi selezionati, tratti dalle collezioni dei musei spagnoli, le “citazioni di scrittori, pensatrici ecofemministe, intellettuali di diverse latitudini che, in difesa della Madre Terra, ci invitano a mettere in evidenza i matricidi della società capitalista (t.d.a).” (Pérez Rubio 2024). Il mito della terra vergine e incontaminata dei colonizzatori non collima con l’importanza delle terre nere amazzoniche ottenute dai popoli indigeni, che per millenni hanno utilizzato sapientemente il fuoco per generare un nuovo tipo di terreno ricco di minerali e preservare la biodiversità. 

Esseri umani custodi o depredatori? Equilibrio con la totalità delle forme di vita o conflitto? L’arte rappresenta due visioni antitetiche e offre lo spunto per il confronto, il dibattito e la ricerca, ma anche nuove prospettive per affrontare la crisi climatica, le ingiustizie e disuguaglianze da un altro punto di vista.

Bibliografia

H. Alimonda, La naturaleza colonizada. Ecología política y minería en América Latina, CLACSO, 2011.

A. Pérez Rubio, Sandra Gamara Heshiki: Pinacoteca Migrante (brochure percorso espositivo), Padiglione della Spagna, 60a Esposizione Internazionale d’Arte. La Biennale di Venezia 2024, 2024, pp.6-7.

Articoli consigliati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *