testo e immagine di Gerardo De Pasquale
Non certamente il riferimento è allo stesso stupor mundi et immutator mirabilis (stupore del mondo e suo meraviglioso modificatore) forse la più mirabile delle vite; quella di Federico II. Ma certamente di simile portata lo stupore con cui AI (l’Intelligenza Artificiale) scuote il mondo. La riflessiva distopia potrebbe sembrare un paradosso cui, capoverso, attribuisco un valore irraggiungibile: la bellezza dell’errore.
Perseverando in locuzioni latine, non è certamente neanche l’errare humanum est, perseverare autem diabolicum, attribuita ad Agostino d’Ippona, ma propriamente una umana bellezza intrinseca nell’errore, in quella ineffabile fragilità unicamente, personale, intima, umana; dove l’entropia del caos non deve risolversi ma “cadere” nel corpo, ben oltre una mimesi, come nella concezione platonica sull’anima contemplando la perfezione delle idee nell’iperuranio.
Massimo Donà nel suo Filosofia dell’errore: le forme dell’inciampo1 definisce che l’errore da Platone ad Agostino, da Cartesio a Heidegger fonda concetti fondamentali come: “opinione”, “colpa”, “dolore” e “felicità”, mostrandoci l’errore non come negativo ma un impulso decisivo dell’intelletto e della vita. Non a caso, anche la recente definizione che Achille Bonito Oliva ha dato all’arte: un inciampo. Quella di un accadimento accidentale e fenomenico che produce espressione, è una definizione indiscutibilmente interessante, ma a questa accosto, non solo metaforicamente e di pari valore, quella del dolore in una concezione certamente greca e non esclusivamente dello stato psicofisico, come ci insegna già Eschilo, padre della tragedia greca; che dal dolore si congiunge pena e conoscenza. Nel suo Agamennone2, infatti, parla di pathei mathos, di apprendimento dal dolore come nella celebre: “Zeus ha posto questo come legge possente: solo chi soffre impara.”. E sull’esperienza del dolore, di tutti i dolori, che le facoltà empatiche si amplificano e dipanano ai nostri saperi.
Si è così enunciato anche un sembrante paradosso, dal greco antico παρά pará (contro) e δόξα, dóxa (opinione), che fu usato già dagli stoici, per designare quelle tesi, specialmente etiche, che apparivano contrastanti con l’esperienza, come, appunto, che il dolore non fosse un male. Tutto ciò che nel paradosso, in senso logico-linguistico, sembra contraddirsi, si risolve in un sofisma, termine che alle origini significò ogni manifestazione concreta della σοϕία sofia, cioè della sapienza dell’uomo. Potremmo, allora, attribuirgli un valore catalizzante della riflessione, mettendo in luce sia la nostra vulnerabilità nel discernimento sia i limiti dei nostri strumenti intellettuali per il ragionamento. Ma è proprio questo il senso più interessante del paradosso che risiede, appunto, in valutazioni ed interpretazioni di valore soggettivo. Quella dimensione forse declinabile ma non certamente imitabile, in quanto unica. Lo stupore derivante dai paradossi e la bellezza intrinseca dell’errore ci invitano a esplorare interessanti intersezioni tra intelligenza artificiale e naturale. Sostenendo l’errore come parte integrante del processo di apprendimento e abbracciando i paradossi come stimolo per la riflessione, possiamo certamente sperare di superare sfide di comprensione e innovazione. Ma bisognerà accettare processi di mimesi ed imitazione, concetti anch’essi profondamente radicati nella filosofia. Aristotele, discute della mimesi nell’Arte Poetica, considerando l’arte come una forma di mimesi che imita la natura. L’imitazione, d’altra parte, è il processo attraverso il quale si cerca di replicare o emulare un modello esistente. L’imitazione è stata spesso considerata una forma di apprendimento, attraverso la quale gli individui cercano di assimilare i comportamenti, le idee o le qualità degli altri. Platone, discute dell’importanza dell’imitazione nella formazione dei cittadini ideali in La Repubblica3, ravvisandone comunque delle riserve riguardo alla sua influenza negativa.
Quando parliamo dell’inimitabile, invece, ci addentriamo in territorio valoriale e complesso per unicità dell’esperienza soggettiva. E questo è d’immanente valore naturale. Il mio pàthos, le mie dense emozioni, la mia commozione estetica legata ai miei preziosi errori, alla mia peculiare sensibile fragilità sono proporzionalmente distanti alla servile ed instancabile intelligenza artificiale, imperterrita ad assolvere ogni mia domanda, alla sua stupida [sic] incapacità di sbagliare se non esclusivamente per mancata informazione.
Il problema, allora, non è quanto l’intelligenza artificiale riesca a riprodurre modelli imitativi ma proprio l’inverso, e questo sì di dimensione etica. Già non si contano i media perpetuamente propinati di fattura spaventevolmente disumana; che possiamo definire come inutili “materiali eterogenei, infiocchettati”, prendendo a prestito la definizione di Carmelo Bene in Quattro momenti su tutto il nulla, che assurdamente imitano la sterile perfezione artificiale. Questo è il nuovo horror vacui nella aristotelica definizione sulla natura che aborre dal vuoto.
Tempo, il nostro, di bulimia d’immagini su cui non poseremo mai il nostro sguardo. Quella semplice ed ineffabile facoltà di struggersi dei nostri progenitori su custoditi scatti fotografici anche errati, sfocati, inintelligibili, ma capaci di ricostruirne, su questi, ogni così definita emozione può, da sola, rappresentare un esempio d’incommensurabile valore naturale. Un errore bellissimo.
Note
1. M. Donà, Filosofia dell’errore: le forme dell’inciampo, Bompiani, 2012.
2. Eschilo (458 a.C.), Agamennone, Ist. Editoriali e Poligrafici, 1996.
3. Platone (380-370 a.C.), La Repubblica, a cura di G. Reale, R. Radice, Bompiani, 2009.