“Chi ben inizia, è a metà dell’opera” 

Piccolo rimedio per sgombrare il campo da facili opposizioni.

di Gian Alberto Farinella

Una cosa è certa, dall’inizio del terzo millennio la digitalizzazione dell’esperienza è diventata pervasiva. La costante e inarrestabile evoluzione tecnologica ha modificato profondamente la sfera percettiva, le abitudini, i modi di vivere e ogni nostro rapporto con il mondo. Istantaneità, rapidità, simultaneità, ma anche sensazionalismo, intrattenimento, spettacolarizzazione, iperconsumo, sono alcune delle caratteristiche di una realtà che si è ormai impastata con la virtualità digitale, generando un unico sistema integrato che tiene insieme due ordini non più separabili, dove l’uno non è la semplice copia dell’altro, ma insieme costituiscono la struttura dell’esperienza stessa. 

Prendiamo la scrittura. La scrittura non è solo più il risultato di una calligrafia che comporta un lungo e faticoso apprendimento durante gli anni dell’infanzia. Quella “bella” poi è stata messa in soffitta, oltre che dalle idee della pedagogia moderna, dalla macchina da scrivere e dalla penna a sfera già lungo tutto il secondo Novecento. Con le tastiere dei computer, ma soprattutto con la tecnologia touch, il gesto della scrittura si è fatto ancora più semplice e veloce; e molto probabilmente più accattivante e divertente nella sua automatizzata leggerezza. Anziché vergare segni sulla carta, si tocca uno schermo lattiginoso. La sensazione è quella di aderire direttamente alla scrittura, senza più mediazioni. La mano fa a meno della penna, così come viene meno la pressione meccanica di un tasto. Un tempo, questi lo si pigiava con una certa forza in modo tale che, il corrispondente martelletto, potesse imprimere la lettera dell’alfabeto sul foglio di carta steso nel rullo girevole della macchina da scrivere. Dunque, niente di più analogico e, in un certo senso, di “naturale”, malgrado la scrittura fosse diventata il prodotto di un meccanismo. Il movimento di leve che, una dopo l’altra, componevano sotto i nostri occhi le parole, non era misterioso. Qui, come la definizione d’obbligo stabilisce, l’informazione ricevuta (la lettera impressa sulla carta) era pari, nella forma, a quella del segnale, cioè alla lettera presente sul martelletto collegato al tasto. Ora, invece, sullo schermo tutto si risolve in un codice numerico che, nell’elaborare il lieve gesto della mano, risulta invisibile e segreto ai più e trasforma il testo alfabetico in un “messaggio”, dissolto, direbbe Ivan Illich, “nel miasma della comunicazione”1. Perciò, fatto salvo l’appartenenza alla schiera degli ingegneri informatici, se le parole che digitiamo sullo schermo (accompagnate, volendo, da un suono e un feedback aptico) sono il risultato di un input elaborato da una stringa di un programma, poco ci importa. Se il testo che visualizziamo è in realtà un linguaggio numerico che sta dietro a ciò che appare, assumendo la veste di “matrice” della realtà sensibile, per lo più sfugge alla nostra curiosità. Ci preme innanzitutto che il dispositivo funzioni, nella felice inconsapevolezza dell’abbandono che hanno le nostre dita nello sfiorare la superficie liscia dello schermo. Così “io digito, tu digiti, noi digitiamo” è diventato il verbo più rappresentativo dell’agire umano (insieme ai conseguenti “visualizzare”, “postare”, “taggare”, ecc.) nell’era denominata, appunto, “digitale”, dal latino digitus, dito (con le dita della mano contiamo). 

C’è però qualcosa che non è cambiato nella scrittura, almeno per chi s’avventura a scrivere più delle tre righe previste da un tweet: come nel passato non è venuta meno la paura e la fecondità del foglio bianco. In un’epoca in cui dominano le immagini e non c’è più nulla che fa “testo” (limitandosi a transitare fugace come un lampo sugli schermi), si sta ugualmente di fronte alla pagina, seppur elettronica, come il pittore con i suoi pennelli di fronte alla candida tela. Prima di iniziare a stendere il colore o a tracciare la prima linea, deve lottare con i “cliché”, cioè con quelle “categorie di cose” che occupano il quadro già prima di iniziare. Una lotta che D. H. Lawrence attribuisce a Cézanne2, ma che ritroviamo in Francis Bacon e in ogni artista che ha voluto registrare delle forze, “dipingere la sensazione” direbbe Deleuze, invece di raffigurare solamente un oggetto (preso come modello per una copia) sulla tela3. Sicché, al di là degli illustri esempi pittorici, ogni volta che abbiamo di fronte il foglio vuoto, il suo bianco ci interpella. Ci induce a fare spazio, a svuotare quella superficie affollata. Dirlo è facile, difficile è farlo. C’è bisogno di qualcosa (curiosità, desiderio?) o qualcuno (un maestro?) che forzi la mano per sbloccare l’inibizione, in modo tale che ci liberi da tutto ciò che condiziona o che ci fornisca un aiuto per rovesciare le consuetudini di pensiero, le categorie consolidate e i rapporti gerarchici dati per scontati. 

L’immaterialità, frutto di un’attività artificiale, tecnologica, opposta alla realtà fisica, naturale, che noi attribuiamo al mondo virtuale, quando per i Greci era vero il contrario, è un esempio che apre una fenditura nel troppo pieno dei cliché. Nella veste platonica di chôra (il ricettacolo invisibile per tutte le forme sensibili secondo gli antichi), era proprio la materia ad essere un luogo virtuale di pura possibilità4. Scoprirlo, non è una mera conoscenza storiografica, un fatto libresco, bensì fa vedere nuovi rapporti e analogie in ciò che ci è più vicino, ovvero tra i dispositivi informatici che obliterano la propria materialità fintanto che funzionano, spacciandosi, appunto, per virtuali, e il pensiero che è tale solo se ricorda la materia e non quando l’abbandona5

Si narra che Emilio Vedova usasse colpire violentemente la tela intonsa dei suoi allievi, incapaci di procedere di fronte a quel bianco, con uno spazzolone intinto nel colore6. Come loro, eccoci qui, inermi, nel subire la forza attrattiva del bianco, ma senza più il gesto del maestro che spazzi via l’incertezza e apra un varco nel vuoto della pagina. A noi rimane l’onere di quel vuoto, che non è mai qualcosa di già determinato, piuttosto è ciò che l’atto produce: è l’“agire del vuoto”, come dice la sapienza orientale7. Basti pensare al gesto del vasaio che, nel far girare l’argilla sulla ruota, non dà solo una forma ad essa, ma dà forma al vuoto. Nel congiungere le mani, lo raccoglie nella sua inafferrabilità, rendendolo visibile. È il vuoto che guida ogni movimento del vasaio che, come uno sfondo, permette che la figura appaia. Allo stesso modo dentro il vuoto della pagina, invisibili, ci sono tutte le parole che sono state dette e scritte. Una folla di saperi, di correnti di pensiero, di citazioni, di luoghi comuni, di frasi fatte, il cui effetto è alienante, fino alla paralisi. 

Da qui sia l’angoscia di non essere in grado di dire nulla che valga la pena di scrivere (“naturale e artificiale”, è un tema per così dire impegnativo, coincide con l’intera storia dell’essenza dell’umano), che la paura di dover mostrare le proprie “uova d’oro”8, ovvero di esporsi al giudizio altrui. Per non lasciarsi prendere dal sopravvento della bianchezza accecante della pagina, bisogna allora fare breccia e liberare dal suo interno, come spore, altre parole. Parole che non duplichino però il pieno, per così dire, a vuoto, in una stanca ripetizione, in un copia incolla indefinito, ma sappiano generare, come dice nuovamente la sapienza orientale, “il vuoto nel pieno”.

Ora, anche chi sta scrivendo, comunemente chiamato l’“autore”, ha cercato di fare come il vasaio: far agire il vuoto nello spazio affollato che è la pagina bianca. Come? Iniziando nel mezzo, dove già ci troviamo, tra l’artificiale e il naturale, tra il virtuale e il reale. Transitando nello spazio aperto dei saperi e nell’accumulo illimitato di parole che ci precedono: il rimedio non si è fatto attendere. I primi segni neri hanno “bucato” lo schermo. Il vuoto, svuotandosi, ha preso forma, e… finalmente, sono affiorate le parole sulla pagina che ora tenete in mano, voi i “lettori”. 

In fondo il detto popolare, “Chi ben inizia, è a metà dell’opera”, non dice niente di diverso.

Note

1. Cfr. I. Illich (1991), Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, trad. it., Raffaello Cortina, 1994, p. 122.

2. D. H. Lawrence (1929), Introduzione a questi dipinti, in Id., Scritti sull’arte, a cura di G. Grasso, Tema Celeste, 1991, pp. 99-106.

3. G. Deleuze (1981), Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it., Quodlibet, 1995, p. 86.

4. Platone, Timeo, 50c, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, 1991, p. 1377.

5. G. Agamben, Dal libro allo schermo, in Id., La mente sgombra, Einaudi, 2023, p. 277.

6. M. Recalcati, Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Feltrinelli, 2016, p. 85.

7. G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, 2016, p. 19.

8. E. Fachinelli (1974), Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, 2010, p. 47.

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