Naturale/Artificiale: i luoghi della attenuazione

Esplorando il paesaggio sonoro

di Carlo Serra

Credo che contrapporre immediatamente Artificiale/Naturale, arrivando alla fine del drammatico processo di variazione climatica, che ci stringe tutti, sia al tempo stesso, comodo e insensato. Comunque si voglia intendere questa coppia oppositiva, che nasce sempre all’interno di perimetri culturali ben definiti, non necessariamente alfabetizzati, vi è sempre un lungo percorso astrattivo che vede prendere forma l’artificiale dalla soglia del naturale, nella forma della ricombinazione o nella forma della scomposizione di funzioni. Una testimonianza rilevante del formarsi di piani funzionali che tendono alla separazione, ma che sono ancora splendidamente impigliati nel vero del naturali, sono gli straordinari reperti raccolti nel suggestivo Museo del Paesaggio Sonoro che ha sede a Riva di Chieri. la ricchissima raccolta, cui ha dedicato un prezioso volume Guido Raschieri, e che vede nella figura di Domenico Torta la via d’accesso al senso musicale di oggetti capaci di raccontare la storia acustica di un territorio, nel momento in cui esiste ancora una funzione fra forme del quotidiano, divertimento e ritualità, ha molto da insegnare, a quei pochissimi che vogliano intendere questa opposizione in modo netto. Esiste infatti una tradizione di pensiero che vuol collocare naturale e artificiale in una forma oppositiva, ora ricorrendo ad un discorso mitologico sui livelli di elaborazione formale dell’artificiale, ora pensando nostalgicamente ad un passato in cui naturale ed artificiale coesistevano quasi pacificamente. La visita al Museo si apre infatti mettendoci di fronte ad un richiamo per uccelli, un artificio, come scrive bene Raschieri1, volto all’inganno, ma, allo stesso tempo, un impressionante lavoro di tecnica mimetica, che parte dalla corretta intonazione del richiamo, alla selezione dei materiali, dalle pelli alle camere d’aria, fino alla costruzione del fischietto, alla pressione delle labbra sul mantice, alla corretta posizione delle dita, mai troppo rigide, fino alla capacità di mimare o misurare gli effetti dinamici del suono, dal lontano, al vicino. Il problema è ricostruire l’esibizione di una voce sempre più piccola, o di uno spazio con un effetto-presenza sempre più attenuato, per accompagnare l’allodola dentro alla trappola, alternando uno strumento grande ed uno più piccolo, in evidente continuità mimetica. Ecco un esempio eloquente di distinzione di funzioni, che sono già pronte a sfociare ludicamente nel mondo del musicale: il modello del canto degli uccelli, che si insegue ossessivamente e con grandi varianti ben strutturate, parte da un piano antropologico che è, per sua natura, ambiguo.  Che vuol dire essere bravi nell’uso del richiamo, nel piegare l’artificio alla riproduzione del naturale? Certamente avere una conoscenza approfondita del suono animale, come saper giocare immaginativamente col suono, quasi perdercisi dentro, per trovare le dinamiche che evocano artificialmente il canto vero dell’animale. A riprova di questo è frequente che l’idea dello spazio lontano, profondo, sia tutta giocata dai modi della interferenza, e questo ci fa comprendere quanti aspetti di proiezione immaginativa cadano ad integrare i dati percettivi. La penombra permette che il tracciato acustico della lontananza crei una vera e propria incurvatura nella percezione acustica dello spazio, un aprirsi del profondo. Dovremmo intenderlo come il farsi di uno spazio, certamente non neutro, che lascia intendere una processualità dal lontano al vicino. Sono nozioni che si applicano bene al paesaggio sonoro della foresta pluviale del Bosavi, dove i suoni forniscono continue informazioni sulla distanza, profondità e altezza della foresta. I Kaluli, spiega l’etnomusicologo Feld, interpretano queste figure sonore onnipresenti come orologi della realtà quotidiana, interagendo con il paesaggio sonoro mediante un continuo movimento di sintonizzazione e distacco, attraverso un incessante cambiamento di messa a fuoco percettiva, come usassero degli zoom uditivi che variano da una prospettiva microscopica a una grandangolare, fino a una da teleobiettivo, seguendo i costanti mutamenti di forma e campo delle tessiture sonore della foresta durante i cicli giornalieri e stagionali. Feld osserva che vi è un fattore sinestetico2 che correla aspetti di suono, tessitura, spazio e movimento in un modo sensorialmente involontario e culturalmente convenzionale. Nella foresta pluviale tropicale, l’altezza e la profondità del suono si confondono facilmente.

La mancanza di indicazioni sulla profondità visiva si abbina alle ambiguità prodotte dalle diverse densità vegetative e da suoni onnipresenti (come lo scroscio dell’acqua), facendo spesso percepire la profondità come un’altezza che si sposta verso l’esterno, dissipandosi nel movimento. Il “che suona sollevato al di sopra” sembra codificare questa sensazione ambigua del “verso l’alto” percepito come “verso il fuori”. Imparare a distinguere e percepire l’altezza e la profondità di un suono nell’assenza di termini di correlazione è stato il maggiore adattamento che mi sono trovato ad affrontare in questo ambiente. Per molti versi, il gioco della cattura dell’allodola sembra giocare col rovescio del senso di profondità acustica che nel suono dispiega l’ampiezza di un mondo culturale che tocca la stessa essenza dell’umano, dei ricordi che quel suono custodisce. Da questo terreno, che fonde percezione e immaginazione forse, sulle tracce di Leroi-Gourhan, si dovrebbe cercare il contatto, più che l’opposizione, fra artificio e natura.

Note

1. Cfr. G. Raschieri, Il Museo del Paesaggio Sonoro, Edito, 2020.

2. S. Feld, Un manifesto per l’acustemologia. Traduzione e commento a cura di Nina Baratti in
Dialoghi con i non umani,
a cura di E. Fabiano e G. Mangiameli, Molimo, 2019.

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