Un incontro mancato

di Andrea Rebecca Mancuso

La bulimia di immagini, a cui siamo quotidianamente sottoposti, non ci permette di distogliere lo sguardo da quello che stiamo guardando, anche solo per un istante. Sebbene il collo ci faccia male, per quanto la cervicale si irrigidisca, noi continuiamo imperterriti ad avere la testa bassa sui nostri schermi. Sembra che con essi stiamo intrattenendo la storia d’amore più grande di tutti i tempi. Questa relazione così intensa non poteva sottrarsi allo sfruttamento della grande macchina del capitalismo. Anzi, è un legame talmente forte da alimentarsi a vicenda, in un matrimonio che durerà a vita. Ma com’è possibile che ci si possa legare morbosamente a delle superfici fredde, appartenenti ad un mondo artificiale? 

Jacques Lacan svela come questo impulso continuo a guardare, che contiene anche la volontà di essere guardati, si rapporti al tema del desiderio, il quale si colloca, per lo psicologo francese, nella mancanza e nella necessità di essere riconosciuto da un altro desiderio. Siamo catturati dallo sguardo dell’Altro1, chiedendogli di restituirci il nostro stesso sguardo. Eppure, questi due, che si cercano per confermare la loro reciproca esistenza, non si incrociano mai sullo schermo. Tale scarto crea una cesura della pulsione scopica: l’agognata attenzione non potrà accadere. Il desiderio di essere riconosciuti in quanto desideranti, quindi, non si realizzerà mai. Questa ricerca dello scambio continuo trova la sua ragion d’essere proprio nell’incontro mancato. Detto altrimenti, non c’è un oltre che va al di là del desiderio perché esso stesso vive di questa pulsione, presupponendo che essa rimanga tale, quindi, una probabilità senza certezza di compimento. Infatti, non potendo concretizzare il possedimento di ciò che desideriamo, tendiamo a ricercarlo costantemente; se non qui, altrove. 

Quindi, ci troviamo di fronte ad uno sguardo che guarda ma non vede. È quella sensazione che abbiamo quando ci rapportiamo agli schermi: ci sentiamo osservati pur non essendoci nessun occhio, inteso come recettore organico preposto alla vista. Eppure percepiamo qualcosa che ci scruta, che esamina le nostre passioni più profonde. Da queste ultime i sistemi ricavano dati che finiscono in pasto agli algoritmi, i quali ci conoscono meglio di qualsiasi altra persona intima. Le tracce che lasciamo, per esempio sui social, ci vengono restituite su misura e, per questo motivo, lo scrolling compulsivo riesce ad anestetizzarci così bene. Esso trae nutrimento dai nostri comportamenti, gli stessi che abbiamo attuato per potercene stare un po’ tranquilli, per distrarci un attimo: quando scorro i video di Tiktok per rilassarmi, l’applicazione prende letteralmente nota dei miei movimenti sullo schermo, anche quando non sono intenzionali come un like, inventariando per quanto tempo guardo un contenuto, che tipologie prediligo, che categorie scarto, profilando così i miei gusti, le mie preferenze, i miei sogni e ambizioni, ma anche ciò che non mi piace e che non vorrei mai vedere. Insomma, non riusciamo a farne a meno perché è il riverbero perfetto dei nostri desideri. Ma in quel momento, in cui sembra che il mondo pesi un po’ di meno (in fondo che male c’è se passo 3 ore su Instagram, mica sto facendo male a qualcuno?), si addormenta il pensiero critico. Le piattaforme ci guardano, pongono l’attenzione ininterrottamente su di noi, perché siamo sempre connessi, ma non ci vedono perché non tengono conto della nostra privacy, men che meno della nostra esistenza; per loro siamo solo dei database viventi, pieni di informazioni, su cui lucrare il più possibile. L’ambiguità più acuta si manifesta quando noi, che dovremmo difenderci, siamo i primi carnefici di questo meccanismo, consegnando le chiavi delle parti più recondite del nostro essere. 

Se così stanno le cose, allora gli schermi diventano gli specchi delle nostre pulsioni più spudorate. Chiediamo allo schermo di appagare la nostra fervida eccitazione, di darci questo sollievo, e lui ci risponde semplicemente riflettendo, con sempre più insistenza, il nostro coinvolgimento pulsionale; e, a nostra volta, ne vogliamo sempre di più, pensando che il prossimo reel o il prossimo tiktok possa essere la risposta che stiamo cercando. Invece, il risultato è lo stordimento provocato dalle ore passate a scorrere il nostro dito dal basso verso l’alto, ripromettendoci di non farlo più, con una sensazione di frustrazione spesso confusa con l’idea di aver perso del tempo, ma che in realtà camuffa la delusione di non aver trovare quell’Altro che rispondesse alla nostra effervescenza, e che ci restituisse lo sguardo che gli abbiamo rivolto e richiesto in cambio. Non a caso questa situazione si ripresenterà dopo poche ore; per chi invece è riuscito a tener duro, e a non cedere, emergerà nei momenti di debolezza dove le inibizioni vengono meno, perché anche chi è più sensibile a tale fenomeno rimane comunque imprigionato in questa dinamica. 

Quindi, l’avidità insaziabile ci porta ad essere sempre più ingordi di immagini, divorando tutto ciò che ci viene presentato. Amiamo il cibo apparecchiato sullo schermo, perché la nostra sensazione di digiuno attiva le ghiandole salivari, e come cani affamati bramiamo il succulente bocconcino. In questo rapporto s’innesta una dipendenza pari a quella dei riflessi condizionati studiati da Pavlov o a quella generata da un amore tossico. Se alla leccornia si sostituisce l’amato o l’amata, il gioco è fatto: la subordinazione e la dominazione reciproca si sono instaurate. 

Nota

1. La A maiuscola di Altro sta ad indicare tutto ciò che può, in un certo senso, guardarci: una persona, un quadro, uno schermo ecc.

Bibliografia 

M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, 2016.

J. Lacan (1964), Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, 1979.

I. P. Pavlov (1926), I riflessi condizionati, Bollati Boringhieri, 2011. 

S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, 2009.

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