il cinema di Kim Ki-duk
di Lucia Landorno
“Difficile dire se il mondo in cui viviamo sia una realtà o un sogno” scrive Kim Ki-duk al termine di Ferro 3. Tutti i film di Kim Ki-duk si muovono sul filo che distingue la realtà dal sogno, l’esteriorità dall’interiorità, creando un’atmosfera mistica. Tutto comunica eppure tutto è assenza e silenzio. Il silenzio si riempie di capacità espressiva e la parola viene abbandonata. La parola, per Kim Ki-duk, controlla e mente. È volontà che prende forma e che si impone. Lo suggeriva già l’Antico Testamento in cui il Verbo è atto creativo: Dio disse e luce fu. Ce lo ricorda oggi l’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, in cui il messaggio è analizzato, adattato e ripetuto fino a diventare un efficace strumento manipolativo. La parola oggi si è spogliata del suo valore comunicativo e la comunicazione è diventata, come scrive Byung-Chul Han, deformativa. Una profonda ricerca della verità allora non può avvenire tramite la parola, deve muoversi necessariamente nel silenzio e riscoprire il valore del corpo. Solo il corpo è autentico. La parola si può manipolare, una ferita no. Un corpo lacerato parla sempre di verità. Come per Omero, anche per Kim Ki-duk l’uomo è il brotòs (βροτός), il mortale, ed è solo sperimentando l’ineluttabilità del dolore e della morte, che può conoscere se stesso e decifrare il mondo che lo circonda. La carne, incisa, graffiata, perforata è il campo d’azione in cui avvengono comunicazione e relazione ed è anche lo strumento per sfiorare, senza mai raggiungere, una dimensione non umana, sacra e mistica. Il corpo non parla, espone. La relazione nasce dalle ferite che uno concede all’altro di vedere e di infliggere. L’uomo si riscopre animale. A volte, è inerme come un pesce pescato e ributtato in mare (L’isola), altre è un predatore feroce che dissemina violenza (Pietà). Il lavoro di Kim Ki-duk è quello di un chirurgo spirituale che, con un taglio di bisturi, decostruisce i meccanismi mentali dell’immaginario comune, per poi ricucirli pazientemente in modo nuovo. Il risultato è un effetto catartico simile a quello provocato dalle tragedie greche e apre la possibilità di una ricerca autentica di verità. Nel 2009, Kim Ki-duk cade in depressione dopo un incidente avvenuto sul set di Dream. Si ritira in solitudine. Passa alcuni mesi da solo a dialogare con se stesso, a soffrire e guarire lentamente e, per tutto il tempo, si filma. “Ho deciso di tornare a me stesso, come regista e come essere umano” dice. Le registrazioni vanno a comporre un documentario che intitola Arirang, come il brano cantato dagli emigrati coreani per superare i momenti difficili in terra straniera. Il cinema, per Kim Ki-duk, è uno strumento di indagine di sé e della natura umana ma diventa anche uno strumento di libertà, perché non esiste libertà se non quella di essere ciò che si è. L’uomo è violento, feroce e fragile. È spinto dalla fame di vita, di amore, di cibo, di sesso, di conoscenza e di denaro e poiché, come scrive Wislawa Szymborska, “là dove c’è fame, finisce l’innocenza”, i personaggi di Kim Ki-duk non sono mai innocenti. Ecco perché anche un bambino cresciuto con gli insegnamenti di un monaco buddhista si rivela sadico e crudele, quando lega dei piccoli animali a un sasso, li osserva dimenarsi e poi morire (Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera). Per Kim Ki-duk, accettare la natura feroce e fragile dell’uomo significa creare delle relazioni autentiche e, allo stesso tempo, percepire il sentimento del sacro che lega intimamente ogni cosa, anche il predatore alla preda.
Difficile dire se il mondo in
cui viviamo sia una realtà
o un sogno.