L’Arte come enigma percettivo: perché siamo naturalmente attratti dal bello?

di Mauro Lenti

Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito
del cuore, la vita per me si era inaridita,
camminavo temendo di cadere.
Stendhal

Immagini come l’Illusione della papera-coniglio o La moglie e la suocera servono a rendere l’idea delle strane regolarità della percezione. Seppur siamo abituati a pensare che l’esperienza estetica sia soggettiva, può essere utile ragionare su quegli aspetti stabili dai quali deriva una rappresentazione condivisa. Questo lavoro non è dissimile da quello degli scienziati della vita che, attraverso “performance” sperimentali, indagano come la natura umana sia stata modellata dall’evoluzione. Con questo spirito si cercherà di proporre uno sguardo sulle considerazioni che lo studio del cervello ci suggerisce rispetto all’esperienza estetica.

Gibson (1979) ha coniato il concetto di affordance per descrivere le possibilità di azione che un oggetto evoca a un soggetto. Ad esempio, una sedia, semplicemente per come è fatta, invita a compiere una determinata azione, cioè sedersi. Questa idea è stata riscoperta e avvalorata dalle neuroscienze nelle ricerche sui neuroni canonici, ovvero dei neuroni con la peculiare caratteristica di attivarsi sia quando si svolge un’azione, sia quando l’oggetto che invita quell’azione viene semplicemente percepito (Grafton et al., 1997). Si può parlare di affordances specifiche rispetto ad oggetti esteticamente apprezzati? Seppure la texture o il materiale di un’opera d’arte possa invitarci ad allungare la mano per toccarla, quest’esperienza non è propriamente stabile. Senza dubbio esistono casi particolari in cui un’opera, come una canzone, invita l’uditore a performare una certa azione, come ballare. Tuttavia, in genere un oggetto d’arte invita il pubblico semplicemente alla propria fruizione.

Innanzitutto, esistono prove che la percezione di un oggetto esteticamente apprezzato correli con la programmazione di un certo movimento? Non solo non si registra un’attivazione della corteccia motoria ma, al contrario, si rileva una forma di inibizione motoria. Sarasso et al. (2019), ad esempio, rilevano un aumento negli indici di inibizione motoria per intervalli musicali particolarmente apprezzati, ma lo stesso si è registrato per immagini o prodotti scultorei. Questa sorta di affordance negativa, che ricorda l’esperienza di svuotamento di Stendhal, ha fatto ipotizzare che l’attivazione motoria e la valutazione degli oggetti esteticamente apprezzati siano regolati da sistemi antagonisti (vedi Sarasso et al., 2020), ovvero l’attivazione di uno si accompagna all’inibizione dell’altro. Qual è una possibile interpretazione di questo fenomeno?

Siamo abituati a pensare che il percetto sia il prodotto finale di un processo lineare che inizia nel mondo fisico, continua con gli organi recettori e culmina nel cervello. Questa folk theory della percezione crea diversi problemi, la maggior parte dei quali è riassumibile nel seguente: il caos del mondo fisico fornisce informazioni sensoriali, molto spesso scarse e quasi sempre ambigue, che da sole non giustificano la ricchezza e l’accuratezza dell’esperienza percettiva. Dunque, buona parte della nostra percezione sarebbe a carico del funzionamento cerebrale. L’ipotesi del Predictive processing (PP) si propone di descrivere questo processo. In sintesi, il PP descrive il cervello come una macchina predittiva in grado di inferire le cause che con maggiore probabilità hanno prodotto le informazioni sensoriali. Questa sorta di allucinazione è controllata dall’informazione sensoriale (Clark, 2013), che permette di aggiornare e correggere le predizioni. Il take-home message del modello si riduce all’unico obiettivo del sistema percettivo, ovvero diminuire l’incertezza rispetto all’ambiente circostante. Come può aiutarci a spiegare il rapporto peculiare tra l’arte e il sistema motorio?

Partiamo da un’idea intuitiva: se ci fossimo evoluti per agire indipendentemente dal possesso di alcune conoscenze minime sull’ambiente, la storia della nostra specie sarebbe stata molto più breve. Al contrario, è più funzionale che l’azione venga disincentivata finché non si possiede una rappresentazione sufficientemente accurata di ciò su cui vogliamo agire. Questo sembrerebbe contrastare con il concetto di affordance, ma non affrettiamoci a trarre conclusioni. I vari oggetti non offrono la stessa dose di informazione: stimoli comuni offrono poche informazioni nuove, di conseguenza l’incertezza generata è minima in partenza e non è necessaria l’inibizione motoria per gestirla. Stimoli come le opere d’arte, al contrario, evocano incertezza che il sistema predittivo si incarica di diminuire, ora sì che fermarsi per acquisire informazioni diventa una strategia efficace, come argomentato da Sarasso e colleghi (2020). Joffily e Coricelli (2013) hanno rilevato come il passaggio da uno stato di alta ad uno di bassa incertezza si correli con forme di piacere estetico. In altre parole, quando “risolviamo” la percezione di uno stimolo incerto veniamo premiati con il piacere dell’esperienza estetica, una sorta di feedback edonico. 

Esistono varie prove a sostegno di questa interpretazione, ad esempio il fatto che gli indici di apprendimento percettivo correlino con l’apprezzamento estetico riportato (Sarasso et al., 2022). Si può supporre che certi tipi di proprietà visive, come le frequenze spaziali, o uditive, come l’armonia tonale, influiscano sull’apprezzabilità dello stimolo. In particolare, gli stimoli più apprezzati presenterebbero caratteristiche associate ad esperienze rilevanti dal punto di vista filogenetico, come i paesaggi più adatti alla sopravvivenza dei primi ominidi, e ontogenetico, come i suoni legati alla vocalizzazione materna. Gli artisti, attraverso una conoscenza semplicemente intuitiva di questi fenomeni, avrebbero rielaborato esperienze affini astraendo le caratteristiche rilevanti e rimodellandole ottenendo effetti comparabili. In questo senso, l’esperienza estetica sarebbe definibile come la cooptazione di un meccanismo utile a fini evolutivi, ovvero essere attratti da stimoli adattivi in quanto soddisfano bisogni fondamentali come quello di informazione. Tuttavia, è possibile fare alcuni passi avanti rispetto a questa conclusione.

Innanzitutto, il concetto di quantità di informazione non permette di capire quale sia la distinzione tra oggetti d’arte e oggetti comuni. Inoltre, rimane poco chiaro perché uno stesso oggetto d’arte possa evocare più volte, sia nel breve che nel lungo periodo, un’esperienza piacevole dopo che ha assolto il suo scopo informativo. Per questi motivi, è utile pensare all’opera d’arte come un oggetto percettivo sui generis la cui complessità non ha semplicemente a che fare con la quantità di informazione offerta, ma anche con la forma in cui è organizzata. Le ricerche illustrate finora sembrano suggerirci che l’esperienza estetica sia simile alla risoluzione di un enigma. Tuttavia, questo enigma, almeno per le opere dall’ampio valore estetico, non viene mai completamente risolto, ma solo il giusto per evocare quel piacere che ci invita a rimirare o riascoltare. Nella Donna che piange (1937), Picasso riesce con un solo oggetto a riassumere diversi punti salienti dell’immagine di una donna disperata giocando sulle varie prospettive: la mano che si copre la bocca aperta in un grido; quelle mani, allo stesso tempo, asciugano le lacrime che sgorgano da occhi spenti che, tuttavia, invocano la pietà del cielo. Il cubismo è uno degli esempi più efficaci di come gli artisti abbiano recepito intuitivamente la qualità enigmatica dell’esperienza estetica e l’abbiano portata alle sue estreme conseguenze; a dimostrazione del fatto che l’arte e le scienze della natura non viaggino su binari separati, ma rappresentino diverse prospettive sulle stesse domande.

Bibliografia

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