Crepe, fessure e interstizi: «sentirci a casa nostra nelle zone di confine»¹

di Alessandro Carrieri

Dipinto di Viola Barovero

Lo spazio urbano si è sempre costituito nell’opposizione – materiale, legale e soprattutto simbolica – con il foris, spazio selvaggio, ignoto e minaccioso che anticamente lo circondava e che ne garantiva al contempo la sussistenza. Le fortificazioni e le mura che separavano città e villaggi dalle foreste circostanti, delimitando lo spazio civico, costituiscono infatti l’archetipo del confine e l’oggettivazione della dialettica inclusione/esclusione su cui si fonda lo stato moderno. Eppure, tutte le attività che consentivano la sussistenza della città, dall’agricoltura all’allevamento, dalla caccia alla raccolta di frutti e bacche, avvenivano oltre tali mura: l’uomo necessita della foresta per vivere, ma per farlo deve escluderla dal proprio recinto abitativo, dal proprio spazio ordinato. Questo luogo di frontiera, di esilio e di asilo (da ieron, “tempio”, “bosco sacro”), offriva rifugio a emarginati, matti, amanti, briganti, eremiti, santi, lebbrosi, maquis, fuggitivi, disadattati, perseguitati, uomini selvaggi; ma era anche abitato da «cacciatori, carbonai, fabbri, cercatori di miele e di cere selvagge (le bigres dei testi antichi), fabbricatori di ceneri che venivano impiegate nell’industria del vetro e del sapone, strappatori di cortecce che servivano a conciare i cuoi o anche a intrecciare delle corde». Eccoli, gli abitanti della foresta: vagabondi, «spesso sospetti ai sedentari»; individui allo stato bestiale e privi di linguaggio e banditi fautori di una propria lingua oscura e incomprensibile ai cittadini; streghe, maghe e fate, trasfigurazione popolare delle sacerdotesse galle; orchi, nani e folletti.

Se le mura esterne della città la difendevano e separavano dalla selva quale sede minacciosa del mistero e del pericolo, dalle cui profondità poteva sempre prorompere il nemico – definendo i confini dell’ordine lì costituito -, i recinti delle proprietà e le mura domestiche proteggevano a loro volta dalla giungla urbana, e istituivano così un nuovo interno ed un nuovo esterno, definendo i limiti della giurisdizione della propria domus. Annientate le ferie selvagge, disboscata o esplorata la foresta ed eradicate le radici delle superstizioni e dei timori che essa suscitava, l’antica opposizione si riprodusse infatti all’interno della città: la secolare dicotomia tra i centri-vetrine delle metropoli e i quartieri periferici “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi» – nuovo asilo di briganti e fuorilegge e terreno sul quale si svolge la «grande battaglia campale tra città e campagna» – e gli attuali processi di “riqualificazione” – capaci di trasformare qualsiasi zona periferica in un nuovo, esclusivo polo di attrazione e di marginalizzarne e svalutarne qualsiasi altra, talvolta anche centrale –, testimoniano ancora la sua presenza.  Sempre nuovi confini, più o meno materiali – i quali da sempre costituiscono un dispositivo biopolitico volto alla differenziazione degli individui in virtù di parametri sociali, economici, etnici o culturali –, lacerano il derma urbano, poiché ogni trasformazione comporta una distruzione ma anche la coproduzione di un inesauribile resto di senso, di un vuoto.

Tra le maglie del tessuto urbano si sviluppano infatti spazi interstiziali e marginali che eludono i reiterati tentativi di normalizzazione, dove l’orizzontalità delle relazioni riesce a sospendere temporaneamente la verticalità dei processi politici ed economici; controluoghi che sfidano e contestano, con la propria r-esistenza, i cangianti addobbi di una società che si autopromuove come utopia realizzata ma che produce un numero crescente di emarginati e oppressi; eterotopie, luoghi «assolutamente altri». Qui, le aspirazioni inconsce e i sogni più reconditi della collettività affiorano costantemente alla superficie della vita sociale, e ad ogni tentativo di reprimerli, imprigionarli o manipolarli si contrappone sempre l’emergenza di un insopprimibile rimosso, il quale non solo riafferma prepotentemente ciò che si voleva rimuovere, ma smaschera e denuncia la stessa rimozione. 

Note

  1.  W. Benjamin, Esperienza e povertà (1933), in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, p. 104.
  2.  J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale (1983), tr. it. M. Sampaolo, Laterza, Roma Bari 1999, p. 34.
  3.  Ibidem.
  4.  Cfr. Liber vagatorum (1509-10), firmato da un anonimo “Expertus in truffis”; D. Heller-Roazen, Lingue oscure. L’arte dei furfanti e dei poeti (2013), tr. it. G. Lucchesini, Quodlibet, Macerata 2019.
  5.  F. De André, La città vecchia, Karim, Roma 1965.
  6.  W. Benjamin, I passages di Parigi (1982),  a cura di R. Tiedemann, ed. italiana a cura di G. Agamben, tr. it. R. Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia e F. Porzio, Einaudi, Torino 1986, p. 106.
  7.  M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie (1984), tr. it. S. Vaccaro, T. Villani e P. Tripodi, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 24.

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