di Laura Triscritti
Era l’estate del 2012 quando mi avvicinai al Grand Canyon in Arizona insieme a un gruppo di turisti. La nostra guida voleva farci scoprire questo grandioso patrimonio bendati. Provavo lo stesso imbarazzo che si prova quando alle feste ti obbligano a fare il trenino con perfetti sconosciuti, ma dopo una giornata di spostamenti e sforzi percettivi non mi spiaceva chiudere gli occhi. L’America è troppo grande. La guida ci fece camminare per un breve tratto in salita uno ad uno creando una grande attesa per quel primo sguardo. Quando mi tolse la benda, per pochi secondi non riuscii a vedere ciò che avevo davanti. Il Grand Canyon era lì e non lo vedevo. Mi sentivo come se fossi a due centimentri da un poster 6×6, era solo una superficie pixellata piena di colori che frizzavano gli occhi. Provai una sensazione di spaesamento finché la mia vista si decise a riconoscere lo spazio e, solo allora, lo vidi. Una immensa distesa modellata dal fiume Colorado, composta da circa 450 chilometri, profonda 1.857 metri e larga dai 500 ai 29 chilometri. I pixel percepiti pocanzi erano persone che camminavano su svariati sentieri. Immenso e abissale. Io, con la mia manciata di anni, minuti, secondi, ero niente. Mai nata, già morta. Una turista disorganizzata che contemplava la Natura. Ho ancora impressi nella memoria quei secondi in cui i miei occhi, seppure aperti, non hanno visto. Nulla è scontato riguardo a ciò che crediamo di vedere e non è scontato il nostro modo di guardare il mondo. Conosciamo tutti il famoso aneddoto, vero o falso che sia, che narra di quei nativi americani che nel 1492 non videro le caravelle di Colombo: l’assioma per cui conveniamo sul fatto che vediamo solo ciò che crediamo di conoscere; che la nostra vista è selettiva e completiamo ogni immagine con un’intensa attività neuronale, il cui scopo è rassicurarci, con l’illusione della visione di una forma “buona” e intera. Servono 13 millisecondi per comporre un’immagine e circa 50 per creare una reazione emotiva a ciò che si ritiene essere il suo contenuto. Tuttavia, non basta per comprendere realmente cosa si guarda. Mi sono chiesta: cosa c’è di vero nel mio rapporto con la natura? E se c’è, in cosa consiste? Quando penso alla foresta amazzonica ho la sensazione di ricordarmi di un pezzo del mio corpo. Mi ricordo di un organo interno e vitale come il mio cuore, il fegato o lo stomaco. Questo organo che io ricordo è fisico e immaginario al contempo, energetico, psichico e spirituale. È un intero apparato immaginifico profondo nel quale risiedono le mie paure e il mio potere, la medicina e la magia, il senso di appartenenza al pianeta e alla specie. Ma quale specie? Penso a una figura abitata da anime vegetali, animali e umane. Circondata da tecnologia e plastica, generata e sopraffatta, soffocata dalla mancanza di tempo. Noi Sapiens abbiamo tentato di addomesticare la Natura e la nostra natura umana ha addomesticato noi. La Natura spolpata arreda appartamenti con l’arte appesa ai muri. Qui è necessario rivedere il rapporto tra figura e sfondo. Lo scienziato Stefano Mancuso nelle sue conferenze illustra una fotografia con delle persone in un paesaggio naturale, chiedendo al pubblico: “Cosa vedete?”. Tutti rispondono: “Delle persone”. Puntualmente il signor Mancuso fa notare che nessuno nella foto prende in considerazione che ci sono delle piante, come nessuno nota che se non ci fossero le piante non ci sarebbero le persone.