L’opera degli Artisti Cinesi Sun Yuan e Peng Yu
di Giulia Elena Morante
Cinquantottesima Biennale di Venezia, nel padiglione centrale dei Giardini i due artisti cinesi Sun Yuan and Peng Yu presentavano la loro installazione su larga scala, esposta al centro della prima sala dello spazio espositivo. Can’t Help Myself (2016) è la prima opera d’arte robotica commissionata dal Guggenheim. I due artisti hanno lavorato su un robot industriale in acciaio inossidabile e gomma, che hanno poi racchiuso in una teca di vetro e di cui hanno realizzato i sensori di movimento e il software.
Nel centro della stanza su una base piatta ancorata al pavimento è posizionato un lungo braccio meccanico con una spazzola attaccata all’estremità superiore, i cui movimenti sono ritmici e calcolati come fosse una danza. Attorno ad esso, sul pavimento dilaga una sostanza vischiosa color cremisi simile al sangue che il braccio tenta di pulire come se cercasse di lavare via i peccati dell’umanità.
Improvvisamente i movimenti dolci e pacati si trasformano in gesti convulsi e disarmonici, e il finto plasma, invece di essere trattenuto, viene lanciato tutt’intorno violentemente. È un’opera dai molteplici significati: esprime l’inquietudine del mondo contemporaneo e il bisogno di controllo, l’impossibilità di riuscire a esprimere le proprie emozioni, le quali, se trattenute per troppo tempo, prendono il sopravvento, sconvolgendo e distruggendo tutto ciò che c’è intorno a noi. Forse in qualche modo si potrebbe associare il disturbo passivo aggressivo, e il disturbo paranoide borderline.
L’installazione si avvale dell’arte definita interattiva, la stessa decritta nelle pagine del libro L’arte fuori di sé di Andrea Balzola e Paolo Rosa (2019) in cui si afferma che la bellezza dell’opera non risiede più in essa, ma nei suoi effetti, nei fenomeni che genera. Can’t Help Myself rievoca il concetto della ciclicità storica, una sorta di eterno ritorno nietzschiano. I forti contrasti cromatici basati soprattutto sul color cremisi, l’impulso di cercare di lavar via i propri peccati e la necessità di controllo che caratterizzano il genere umano mi hanno ricordato la serie televisiva The Handmaid’s Tale del 2017, ideata da Bruce Miller e basata sul romanzo distopico del 1985 Il racconto dell’ancella della scrittrice e poetessa canadese Margaret Atwood. Sia nell’opera sia nella serie tv ritroviamo quel modello di supercontrollo che ahimè molti regimi, ad esempio quello cinese, impongono sullo stile di vita delle persone. Il racconto dell’ancella esplora i temi della sottomissione della donna e dei vari mezzi che la politica impiega per asservire il corpo femminile e le sue funzioni riproduttive ai propri scopi: a Gilead, la nazione distopica del romanzo, la società è organizzata da leader assetati di potere e divisa in nuove classi sociali, in cui le donne, brutalmente soggiogate, non possono lavorare, leggere o maneggiare denaro.
Can’t help myself è un’opera di denuncia nei confronti del regime cinese, nel quale sottomissione, censura e potere politico sono le tre parole chiave. I suoi autori Sun Yuan e Peng Yu dichiarano: “Viviamo tutti in un sistema, controllati dal sistema, e cerchiamo di controllare più cose nel sistema.
L’incarnazione del potere di una persona risiede in quanto controlla il mondo. Più si ha il controllo e più si ha il potere. Questa regola non cambierà mai, dai tempi antichi fino al futuro”. E il futuro dell’arte inevitabilmente si dirigerà verso la robotica, le nuove tecnologie sono parte integrante del processo evolutivo dell’uomo ed in quanto tali faranno parte del processo creativo. Come diceva Asimov, le macchine non posseggono libero arbitrio, semplicemente eseguono i comandi dell’essere umano in modo accurato: “Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge”.
BIGLIOGRAFIA
Margaret Atwood, The Handmaid’s Tale, 1ª ed., McClelland & Stewart, Toronto, 1985.
Andrea Balzola e Paolo Rosa, L’arte fuori di sé, Feltrinelli, Milano, 2019.