Piero Gilardi e l’utopia della creatività collettiva

Di Orietta Brombin

Omaggio a Piero Gilardi

Cercando le innumerevoli tracce lasciate da Piero Gilardi lungo il percorso eclettico di artista, teorico e attivista, tra i vari documenti dei primi anni della Rete web digitale, si trova un documento in tre parti, la significativa registrazione del suo intervento al convegno tenutosi all’Accademia di Brera nel 1996: Un approccio formativo all’arte dei nuovi media1.

La Rete, originata negli anni ‘60 da studi bellici durante la Guerra Fredda, varata ufficialmente nel 1989 al CERN di Ginevra, in seguito alla progressiva diffusione dei personal computer in uso dalla metà degli anni ‘80, arriva a riconoscersi nella vastità del World Wide Web nei primi anni 2000. La comparsa dei nuovi media rappresenta per Gilardi una nuova e coerente sfida, in linea con la sua ricerca transculturale e oggetto di dibattito anche sociale di quegli anni. Il filo rosso di un’attenzione puntuale ai fenomeni del suo tempo è per Gilardi: “[…] uscire dall’arte per entrare in altri ambiti […] quando a metà degli anni ‘80 le tecnologie hanno mostrato la loro capacità enorme di trasformazione delle strutture economiche e anche della cultura”2.

I mutamenti improvvisi della sua ricerca (perché improvvisi sono i cambiamenti da cogliere) lo portano a creare nuovi gruppi, affini e progettuali, nuclei alternativi di artisti e intellettuali caratterizzati da un comune approccio sperimentale, come il progetto ARSLAB di Torino, e quello internazionale Ars Technica con sede a Parigi nel Parc de la Villette. Gilardi immagina (perché ne crea forma) una svolta cibernetica già nelle sue prime produzioni, le protoscientifiche Macchine per il futuro esposte nel 1963 alla galleria L’Immagine di Torino. Gli stessi tappeti-natura sono capsule del tempo, porzioni di paesaggio risolte con tecniche artificiali, micro-ambienti confortevoli e ritratti fedeli di un’unicità che solo l’autore ha potuto osservare con i propri sensi. La loro rappresentazione è già la dimostrazione di un distacco, tanto virtuale quanto commovente, del ben noto stilema classico: la vanitas di una natura miserabile in perdita3, per ricordare a tal proposito le parole di Sottsass. Lo stesso Gilardi, intervistato riguardo alla sua ricerca di nuovi linguaggi tecnologici, precisa: “L’idea dei tappeti-natura l’ho maturata nel 1964 quasi come una deduzione dal progetto delle macchine per il futuro; infatti nella cellula abitativa individuale dovevano esserci dei quadri gestaltici con una funzione psicoterapeutica; quando tentai di concretizzare sperimentalmente quei quadri, sentii l’esigenza di attualizzarli con il vissuto della natura artificiale tipico degli anni ‘60, pur mantenendo […] l’utilitarietà del tappeto. Penso che l’elemento di continuità che collega i tappeti-natura alle mie odierne installazioni computerizzate sia il bisogno di artificialità che è un bisogno profondamente umano-biologico nel senso che l’uomo, come tutti gli organismi viventi, ricrea artificialmente il proprio ambiente nella ricerca di una migliore ergonomia esistenziale. Superato il punto di vista antropocentrico della vecchia epistemologia, cade la tradizionale opposizione tra naturale ed artificiale, tra natura e cultura”4.

Gilardi intuisce che per la rivoluzione informatica gli strumenti tradizionali dell’opposizione politica e culturale stiano diventavano obsoleti e che la responsabilità degli artisti, la sua responsabilità, debba continuare a operare per un possibile cambiamento, anche di medium: poiché “l’arte deve entrare nella vita, ma dato che la vita è alienata, occorre impegnarsi anche a liberare e disalienare la vita”5. La sua preoccupazione politica in quel decennio ragiona sul come avrebbero agito le nuove tecnologie nella nostra vita futura, nel salto enorme rappresentato dalle tecnologie meccaniche mutate in tecnologie immateriali. La transculturalità che lo ha sempre contraddistinto è la chiave della trasformazione profonda della sua ricerca, sempre attenta alla relazione (che possiamo anche definire ancoraggio consapevole) con l’essere natura, ancor più se ci si trova immersi nel sistema capitalistico delle macchine, pur sempre organi dell’intelligenza umana6. In questo senso, l’utopia espressa da Gilardi, due anni dopo la sua conferenza a Brera, prenderà forma nell’installazione digitale General intellect (1998), agente politico in forma di gioco interattivo che affronta il nodo del virtuale proponendo di partecipare collettivamente a una pedagogia dell’esperienza, una sorta di terapia concreta alla produzione di un sapere sociale: sei persone costruiscono – insieme – una città multietnica sperimentando una possibile coesistenza identitaria multipla. 

Muoversi nello spazio del web, quello che Barilli definisce come carattere esplosivo, dove lo spazio prospettico della modernità diventa mare aperto nel quale “L’uomo dell’era elettronica estende il reticolo delle sue terminazioni nervose fino a occupare grandi distese di spazio e di tempo […], non può privarci della corporeità perché: […]7 noi percepiamo muovendoci nello spazio e agendo. Il nostro percepire è un ricostruire il mondo e lo facciamo non solo con i nostri strumenti mentali, con i nostri apparati di simbolizzazione, ma lo facciamo anche – in maniera inestricabile – con il nostro corpo”8.

Note

  1. P. Gilardi, Un approccio formativo all’arte dei nuovi media.
  2. E. Sottsass, Domus, n.455, 1996.
  3. L. Marucci, Piero Gilardi e lo Spazio Virtuale, in Juliet, n.74, 1995.
  4. A. Bellini, Piero Gilardi, in Flash Art, 2015.
  5. K. Marx (1857-58), Frammento sulle macchine, in Grundrisse.
  6. R. Barilli, F. Irace, F. Alinovi, Una generazione postmoderna, Mazzotta, 1983.
  7. P. Gilardi, Un approccio formativo all’arte dei nuovi media, 1996.

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