di Massimo Mila
Quand’eravamo giovani, e con Pavese, Sturani, Ginzburg, Argan e gli altri della “banda Monti” volevamo a modo nostro opporci alla stupida antitesi di Stracittà e Strapaese con cui il regime fascista cercava di addormentare l’attenzione degli intellettuali, avevamo inventato per scherzo il movimento di “Strabarriera” e deliravamo per certi paesaggi della periferia di Torino, là dove la città finiva e incominciava la campagna, e le officine si affiancavano alle ultime cascine: quello che nel castigliano dell’America Latina si chiama con felice espressione la “orilla”, la spiaggia. Molti racconti di Pavese hanno lì il loro ambiente e immagini se ne vedono in certe tavolette di Sturani e Argan; e almeno un grande quadro di Felice Casorati vi si ispira, per cui, senza ancor conoscerlo di persona, l’avevamo nominato socio onorario di Strabarriera. Ora in quei posti dove noi andavamo in cerca di osteriole fuori mano (una ci incantava con la sua insegna “la Trattoria del Far West”, anche perché si trovava invece all’estremo Est di Torino), sorgono enormi palazzi d’abitazione e li attraversa in diagonale la popolosa e movimentata arteria di Corso Belgio. Ad essere dei nostalgici, ci sarebbe da intonare il solito lamento sui beni perduti, Torino che scompare, le belle e buone cose d’una volta che non torneranno più, e via piagnucolando. Invece, niente: nulla va perduto davvero, e se la nostra giovinezza se n’è andata, altre le sono succedute, e ogni generazione si reinventa i nostri vecchi sogni e riscopre per conto suo i nostri ideali. Certo, la città s’ingrandisce con uno slancio spaventoso (come nel quadro di Boccioni), e mangia sempre nuove aree alla campagna circostante. Ma la frontiera, la “orilla”, resta; è solo questione di spostarla un po’ più in là. Balzola vi ha scoperto un fenomeno che presenta risvolti sociologici dei più singolari, e se ne è fatto appassionato ritrattista (ché di ritratti veramente si tratta, non di illustrazione). E’ il fenomeno degli orti urbani che a poco a poco si sono impiantati su una fascia di terrain vague, una terra di nessuno, ossia quasi sempre del Comune, che si stende sulla cintura nord-occidentale di Torino, entro un’ansa della Dora, tra la zona della Pellerina (l’antico canale ora interrato che derivava acqua dal fiume per irrigare i terreni delle cascine allora esistenti) e i terreni incolti che lambiscono la ferrovia per Milano. Incolti per modo di dire e per finzione burocratico-amministrativa. In realtà, in questa vasta area, in gran parte piana, in parte sul breve ma ripido ciglione d’erbacce e cespugli della sinclinale che termina nel dislivello di via S.Donato, si è venuta sviluppando una coltivazione orticola a livello artigianale e privatistico, quasi di hobby, attraverso insediamenti per lo più abusivi (anche se non è escluso che qualcuno paghi regolari affitti a legittimi proprietari) di coltivatori precari, i quali sanno benissimo di doversene andare il giorno che qualcuno ottenga permessi di costruzione in quei terreni e vi tiri su altri casermoni in cemento armato, a mangiare un’altra fetta della campagna che lì si trova a stretto contatto con la città in espansione e cerca di contenerla, la preme coi suoi ultimi alberi, i suoi fossati, le sue siepi di sterpaglie. Ora che cosa attirava l’interesse di Balzola in questi orti suburbani?
Non già le coltivazioni, perché non c’immaginiamo il suo pennello alle prese con cavoli, pomodori e fagiolini (anche se non va dimenticata una sua vecchia litografia d’uno splendido e lussureggiante cardone). Ma la grande attrattiva di questi insediamenti è che, poco a poco, ogni orticello si è venuto dotando d’una sua incredibile baracchetta costruita coi materiali più eterogenei ed estemporanei che si possano immaginare. Non sono locali di abitazione: niente da vedere con le bidonvilles d’altre città e coi ricoveri di baraccati bisognosi. La gente che coltiva questi orti abusivi e provvisori non saranno dei nababbi, certo, ma nemmeno sono dei barboni e dei pezzenti. Sono gente che sta abbastanza bene, gente che esercita un altro mestiere, oppure pensionati precoci: l’orticoltura la esercitano per passatempo, magari per passione. Le baracche, perciò, sono in linea di massima semplici depositi di attrezzi, come avviene nelle campagne del sud, dove i contadini vivono in grossi centri quasi urbani, e sui campi, distanti anche qualche decina di chilometri, si recano dalla mattina alla sera. Solo in qualche caso particolarmente civettuolo, come si vede in qualcuno di questi disegni, può accadere che davanti alla baracca si protenda un pergolato – ‘na topia – e sotto i tralci ci sia una tavola con le panche intorno, dove l’estate è bello trascorrere piacevoli pomeriggi domenicali vuotando un fiasco e affettando i salamini alla cacciatora. Ma quel che bisogna vedere è come sono costruite queste baracche! Con quali incredibili risorse di materiali i più disparati, racimolati chissà dove nelle discariche pubbliche, tra i rifiuti delle industrie e nei campi di demolizione. Tutto viene usato per impieghi diversi da quelli originari: lamiere e plastiche ondulate per i tetti, reti metalliche dei pagliericci come elementi di recinzione, vecchie stufe arrugginite, motori d’auto irrimediabilmente grippati, ruote, copertoni, mobili (per lo più coricati anziché dritti sulle loro zampe), scaldabagni in disuso, cassette di legno, filo spinato, insegne di latta, secchi, tini e soprattutto bidoni, bidoni, bidoni. E’ l’epopea, la civiltà del bidone. Gran problema di questi coltivatori è infatti l’irrigazione. Salvo pochi che hanno la fortuna d’essere piazzati proprio accanto alla sponda meridionale della Dora, o presso qualche superstite bialèra, altrimenti per tutti c’è il dramma dell’acqua: il Comune che li tollera graziosamente, è naturale che non spinga la sua magnanimità fino a fornirli anche di derivazioni idriche. Perciò l’unica risorsa è la pioggia, che viene tesaurizzata coi più incredibili artifici di canalizzazione: vecchi pezzi di grondaia, disposti a scaletta, raccolgono l’acqua piovana, se la trasmettono con salti successivi e alla fine la versano, dove? Naturalmente nell’immancabile bidone, della benzina o dell’olio Fiat. Questo mondo filiforme di rifiuti rigenerati e chiamati a nuova vita esercita un’attrazione irresistibile sull’estro d’un disegnatore nato com’è Balzola. Questo caos inorganico lo stimolò a mettere a punto una sua tecnica personale d’incisione finissima, di segno risentito e preciso, in cui si affermò la sua personalità artigiana di homo faber, dalle mani industriose, in contatto costante con la concretezza del reale. Balzola ritraeva gli orti urbani minuziosamente al tratto, con pennino sottile intinto nell’inchiostro di China, e poi vi passa su un leggero velo di colore acquerellato, che lascia intatta la nervosa evidenza del segno. Non ci sono colori sfavillanti, gli stessi fiori dei girasoli non sono sfacciatamente dorati, il rosso delle scritte sui bidoni è per lo più cupo oppure pallido: su tutto predomina un colore bruno, che è il colore del legno e della terra, cioè delle materie vere, autentiche, sottostanti a questo universo d’ingegnosi artifici. Naturalmente, tutto potrebbe ridursi appunto a un divertente caso sociologico, quasi di turbamento della campagna, accompagnato nel pittore a una crescente abilità professionale nella scrittura delle forme, di cui i competenti potranno meglio giudicare. Ma quello che conferisce un di più a questa serie di disegni acquerellati è, come sempre in Balzola, il senso di fraternità e solidarietà dell’uomo verso l’uomo, l’ammirazione verso l’ingegnosità delle sue risorse, il bisogno irresistibile di stabilire un dialogo e di affermare nell’uomo la misura immanente di tutte le cose e di tutti i valori.
Questo testo è stato pubblicato per la prima come presentazione della mostra personale Gli orti urbani di Gino Balzola, Galleria La Tavolozza di Alberto Peola, Torino 1979 e poi ripubblicato nel catalogo della mostra antologica Gino Balzola, Regione Piemonte 1985 e nella monografia Gino Balzola, il pittore che scalava le montagne, Scalpendi editore, Milano 2014.