di Carola Allemandi
Esiste un comune intendere nel pensare la fotografia e la scrittura poetica che si esprime nel compiersi di quel processo inventivo che necessariamente dall’occhio passa alla manifestazione trasfigurata di una prima visione: tutto inizia in ciò che si vede e, se questo breve assioma pare evidente nella pratica fotografica, anche per quella poetica si può dire che sia nell’immagine evocata che il verso riesca a trovare il proprio totale compimento. Si assiste, in entrambe le forme espressive, come a un “cammino” della sensazione, che da esterna diventa interna per trasformarsi nuovamente in entità estrinsecata ora in parola ora in immagine – restituita.
Come a richiamare il rapporto tra l’autore e il mondo – ovvero quella dimensione da cui ricaverà le immagini che costituiranno la base del proprio operato – cioè un rapporto colmo di scambi e possessioni reciproche, il termine restituzione suggerisce appunto il viaggio che dal suo ancoraggio al mondo esterno l’immagine compie verso la soggettività sensibile in grado di coglierla e farla significare. Il percorso dell’immagine, quando afferrata inaspettatamente e intravista tra le forme del quotidiano, segue un itinerario per generare un vedere ulteriore: si potrebbe dire che la fotografia, così come la poesia, siano sempre il ritorno di un sistema di immagini verso la loro prima casa, la realtà materiale.
La reciprocità che avviene tra l’autore e la propria visione è il legame di incontro che permette l’apparire delle opere che successivamente prenderanno vita, ed è in virtù di questo “darsi” che l’occhio pure si muove e si ferma.
Il vedere poetico – come quello fotografico – ovvero il momento in cui viene intercettata l’immagine originaria che li muove, può essere paragonato al compasso di un noto componimento di John Donne, in cui il poeta-amante associa se stesso e la sua amata allo strumento tecnico: quando uno dei due segmenti si piega, pure l’altro è costretto a piegarsi per seguirne l’inclinazione, mentre nel rialzarsi verrà condotto al suo stesso centro:
Congedo, a vietarle il lamento (1611)
“[…]
la tua anima il piede fisso che, all’apparenza,
immoto, muove al moto del compagno
e, se pure dimori nel suo centro
quando l’altro si spinge più lontano,
piega e lo segue intento
e torna eretto al suo tornare al centro.”
Quasi a descrivere “meta-poeticamente” il processo della stessa invenzione poetica, Donne riesce a suggerire l’idea che il poeta stesso possa essere l’amante delle immagini che in lui evocano il senso del suo scrivere, e proprio come il compasso, immagini e autore si piegano vicendevolmente per realizzare un’unica figura armonica. Il fotografo non si discosta da questa similitudine, in quanto anche lui pone nel proprio occhio il centro e il termine dell’unione tra sé e il mondo esterno: così l’immagine prescelta fungerà da secondo segmento del compasso, andando a compiere quel percorso di ritorno e avvicinamento all’occhio che l’ha colta. L’occhio del fotografo, come quello del poeta, è il centro magnetico in cui rientrano quelle porzioni di realtà che verranno restituite in forma nuova al mondo che per primo le ha accolte e generate.