Il centro e la periferia come spazio della Rappresentazione 

 di Gian Alberto Farinella

Abituati come siamo ad opporre il centro alla periferia, secondo una logica binaria che coinvolge tutte le parole-chiave della nostra cultura (ad esempio, “padre” rimanda a “figlio”, cosi come “bianco” a “nero”), dimentichiamo ciò che il semplice gesto di puntare un compasso per disegnare un cerchio rivela: entrambi caratterizzano la rappresentazione dello spazio ma, anche, come vedremo, segnano lo spazio della rappresentazione. 

Per intanto l’etimologia ci viene in soccorso: “centro”, deriva dal lat. centrum, e, a sua volta, dal gr. kéntron, “punta, aculeo” (da kentéo, pungere); quale punta di mezzo di un circolo, il kéntron è il punto a partire dal quale la periphèreia (da perí, “intorno”, e phèreia, der. di phérein “portare intorno, girare”) è il contorno, il bordo circolare, la linea curva che, tornando su se stessa, forma una circonferenza. Sicché, per estensione, il centro è il punto di mezzo di qualsiasi figura; e la periferia è la linea che delimita e separa lo spazio interno da quello esterno. La portata di questa caratterizzazione è evidentemente enorme: ci dice che se qualcosa è centrato, lo è nella misura in cui intrattiene un certo rapporto gerarchico con la periferia e, di conseguenza, fa dello spazio un campo di forze. Come ci insegna Arnheim, sulla scia di Kandinsky, un punto al centro di un riquadro trasmette un senso di stabilità, di equilibrio: è ben piantato, solido, irremovibile nel suo essere posto lì nel mezzo della cornice. Mentre un punto decentrato lascia subito vedere un’inquietudine: siamo come trasportati in un movimento potenziale, destabilizzante e per certi versi creativo; alla simmetrica compiutezza del centro subentra la dinamica del periferico, del marginale, dell’eccentrico1. Non a caso, la prospettiva centrale, che potrebbe sembrare l’unico modo per rendere in immagine il reale in maniera corretta e neutra, è invece un modello culturale, un dispositivo ideologico, tutt’altro che innocente che comporta anch’esso una gerarchia, ossia che esista un punto di vista privilegiato, uno sguardo che vale più di altri nel suo esser collocato nella giusta posizione nello spazio. Si tratta, però, di una doppia astrazione. Da una parte si ha uno sguardo invisibile e disincarnato, che nell’Ancien Régime coincide con quello del sovrano, e che oggi, nelle nostre democrazie, appartiene all’occhio del consumatore medio, monitorato dall’algoritmo, dall’altra vi è una costruzione di uno spazio astratto, geometrico, ora pietrificato nel digitale, da cui sono sottratte la mobilità e l’inquietudine dello spazio vissuto. Il doppio figurativo, costituito secondo le leggi della propagazione della luce, perciò, non è altro che una “forma simbolica”, per definirla con l’espressione di Panofsky, capace di veicolare una certa visione del mondo “realistica” che appare con i tratti della coerenza e dell’omogeneità che riscontriamo nella percezione diretta del reale, mentre invece è vero il contrario: è il dispositivo che modella una visione solida e quantificabile della realtà che ci sembra “a portata di mano”, pronta ad essere usata per ricavarne del profitto. 

Tra il centro, occupato da un soggetto ideale, e la periferia, rispecchiata dallo spazio astratto in cui esso si muove, si compie così quella frattura di “soggetto” e “oggetto” che la modernità non ha più abbandonato e che il disegno prospettico è stato in grado di raffigurare e, coerentemente, far funzionare. Riducendo il rapporto con il mondo a pura relazione ottica, come si guardasse attraverso una finestra, secondo le indicazioni dei vari Leon Battista Alberti, la proiezione centrale ha circoscritto il luogo della “rappresentazione” tout court, quale campo d’azione del soggetto in essa installato. Lo stesso dicasi per quel dispositivo coevo alla prospettiva, la camera oscura, che, nel “separare l’atto della visione dal corpo fisico dell’osservatore”2, ha fornito anch’essa un riscontro materiale di tale luogo, a cui la filosofia ha dato voce con le sue speculazioni metafisiche. Ossia, la realtà non è ciò che è, ma ciò che l’occhio vede. La realtà è Rappresentazione di una “coscienza spettatrice” che sta al centro e la circoscrive. 

Ora, che la voce della Rappresentazione sia filosofica non deve stupire. È la filosofia, il suo linguaggio, il suo apparato concettuale che determina e condiziona un’epoca storica, anche se a pensare è un singolo uomo. Nel nostro caso, l’uomo in questione è un francese vissuto nel XVII secolo, René Descartes, italianizzato e noto come Cartesio. È infatti a partire dal suo gesto filosofico che si è imposto in Occidente un determinato modo d’intendere il pensiero e la percezione di cui noi ne raccogliamo l’eredità e le conseguenze. Basti solo tenere presente la differenziazione delle facoltà universitarie in umanistiche e scientifiche, là dove nelle prime si studia, per così dire, l’“anima” e nelle seconde i “corpi”, per vedere come essa sia di chiara matrice cartesiana e discendente dal suo dualismo ontologico che separa la res cogitans dalla res extensa. 

Un dualismo, però, che ha un’origine prevalentemente cognitiva. Per Cartesio la percezione, intesa etimologicamente come concepire con il pensiero, è contrapposta al vedere, all’intuizione del “dato in carne ed ossa” (per dirla con una celebre locuzione husserliana) che si offre all’occhio nella visione. “La percezione – scrive il filosofo francese, nella seconda delle sue Meditazioni sulla filosofia prima, pubblicate nel 1641 – […] non è una visione […], ma un’analisi della sola mente”3. Ciò significa che la percezione è pura speculazione intellettiva, ispezione interiore che deve tendere alla massima chiarezza e distinzione degli oggetti presi in esame, affinché si possa giungere a una verità incontrovertibile su di essi. Ovvero, conoscere chiaramente e distintamente le cose del mondo è possibile solo se le concepiamo con il pensiero, con l’occhio interno della mente, e non ci facciamo ingannare dalla visione esterna offerta dai sensi, né dalle opinioni ricavate dai libri. Ma dove ricava il fondamento di tale verità Cartesio? Ebbene è presto detto, se la percezione è vera, cioè chiara e distinta, solo come ispezione della mente, lo è, perché il pensiero è l’unica realtà che l’Io può riscontrare con certezza assoluta. Tale certezza sarà il frutto dell’esercizio introspettivo e solitario praticato da Cartesio dopo aver revocato in dubbio tutte le opinioni a cui ha prestato fede fino a quel momento. Ora, senza ripercorrere tutte le argomentazioni seguite da Cartesio, qui ci basta arrivare alle sue conclusioni: ciò che non può essere revocato in dubbio è l’esistenza dell’Io che dubita, cioè che pensa. Fintanto che pensa, infatti, essa, non solo è confermata, ma trova il suo attributo essenziale, il suo principio primo, la sua verità. Si legge nella seconda Meditazione: “Il pensiero [è] la sola cosa che non mi può essere sottratta. Io sono, io esisto, questo è certo”4. Da qui la celebre locuzione Ego cogito, ergo sum, “io penso, dunque sono”5. Data l’evidenza che per pensare bisogna essere, la conoscenza certa di sé dell’Io, resa possibile dall’“Io penso”, diventa il fondamento assoluto del reale, da cui Cartesio dedurrà a sua volta l’esistenza dei corpi esterni, concepiti come cose spaziali (res extensa), geometricamente strutturate e misurabili.

Come ha sottolineato Martin Heidegger, il pensiero di Cartesio segna un punto di svolta decisivo per il pensiero occidentale: “per la prima volta l’ente è determinato come oggettività del rappresentare e la verità come certezza del rappresentare stesso”6. Il soggetto, in quanto se stesso pensante, diviene il centro a partire da cui e mediante il quale si rapportano le cose del mondo in quanto oggetti; ora solo più primariamente valutati nella verità della loro costituzione fisico-matematica. Ma c’è di più. Con la tesi Ego cogito, ergo sum, il sum del cogito si mostra nell’evidenza di vedere se stesso cogitare. Diventa certezza nell’istante dell’intuizione, diventa pensiero attento a se stesso che nel riflettersi esclude la possibilità di ogni altra eccedenza (se non quella di Dio, ancora per Cartesio il garante della verità dell’intuizione stessa7). L’autoevidenza del pensiero è ottenuta come davanti allo specchio, si percepisce attraverso le sue “invisibili” cogitationes, risolvibili tutte esclusivamente nell’interiorità della coscienza. Il suo “vedere” è un pensiero di vedere, come lo definisce Merleau-Ponty8. Non a caso, la metafisica dell’interiorità cartesiana trova un riscontro fisico nel dispositivo ottico della camera oscura. Nella Diottrica, il filosofo francese, per poter spiegare la struttura geometrico-proiettiva della visione e il passaggio dalla dimensione corporea materiale a quella mentale ricorre a questo dispositivo. Il che può portare a dire, come è stato fatto, che grazie agli studi praticati da Cartesio sull’ottica, egli sia pervenuto ai risultati della sua metafisica9. Tuttavia, che l’analogia tra occhio e camera oscura preceda o meno la concezione geometrica della visione di Cartesio, non toglie nulla agli effetti del suo dualismo. La separazione netta tra la res cogitans e la res extensa, il porre l’oggetto come rappresentazione razionale e la certezza come verità della rappresentazione, come risultato di un’autoevidenza soggettiva, ha, tra le tante conseguenze, quella di visualizzare il corpo umano solo attraverso il pensiero10. Grazie al dualismo cartesiano, la percezione del corpo subirà una trasformazione radicale rispetto ai secoli precedenti. Il corpo sarà visto da un occhio disincarnato, puro, che vede ciò che sa, che valuta attraverso un’idea, una concezione geometrica, già presente nella mente. Quindi nell’osservare il corpo la mente prende misure, riporta risultati; e, mentre ne rileva le forme, ne isola gli elementi semplici, ne scopre il funzionamento e la loro composizione complessiva, volutamente tralascia l’esperienza vivente del corpo. Il carattere limitante, concreto e sensibile di ogni vissuta dimensione corporea viene rimosso da Cartesio, dal momento che, come scrive Merleau-Ponty, “l’esperienza del corpo ci fa riconoscere una imposizione di senso che non è quella di una coscienza costituente universale”11. Oggetto sotto osservazione, il corpo diviene così “corpo-morto”, il cadavere piazzato sul tavolo dell’anatomista che ne seziona le parti, ne descrive le funzioni e le sue qualità meccaniche e idrauliche. Ispezionato, ridotto a una mera “sommatoria di organi”12, il corpo è solo più una macchina ben congeniata da studiare pezzo per pezzo attraverso la quantità e il numero, come qualsiasi oggetto del mondo fisico; da collocare anch’esso all’interno di un ordine matematico-geometrico e riferibile a un sistema determinato da un’unica rappresentazione, quella posta da un soggetto che vede il mondo razionalmente. Nel diventare centro, il soggetto cartesiano disincarnato può ora segnare la circonferenza entro la quale muoversi agevolmente. Il suo spazio è lo spazio razionale della rappresentazione, dove l’Io si costituisce come soggetto di sorvolo che, con un solo sguardo, può abbracciare l’intero mondo. Tale centralità del rappresentare è data dal rappresentare stesso che, seguendo Heidegger, “è un porre-innanzi (Vor-stellen) che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa essere sicuro, cioè certo dell’ente”13. Tramite la Rappresentazione la scienza moderna trova così la sua “immagine del mondo” (Weltbild), che altro non è che “la conquista del mondo risolto in immagine (Bild)”14. Staccandosi dal corpo, la coscienza diventa spettatrice, contempla la cose a distanza e così facendo concepisce il mondo come “quadro”, “immagine”15, il cui riverbero (esplorato da Guy Debord e non solo) arriva fino all’odierna spettacolarizzazione globale. Ma il “porre-innanzi” della rappresentazione, non è solamente il portare davanti a sé il mondo risolto ad immagine, è anche simultaneamente il porre innanzi a sé il soggetto. La rappresentazione è sempre rappresentazione di qualche cosa, ma è anche del soggetto medesimo che si rappresenta, cioè pone se stesso nella rappresentatività, nello spazio della rappresentazione a partire dall’evidenza intuitiva del pensiero. Da qui all’“unità sintetica originaria dell’appercezione”, all’“io penso” di Kant, che accompagna necessariamente ogni rappresentazione, il passo è breve: “Solo […] in quanto posso congiungere in una coscienza un molteplice di rappresentazioni date – si legge nella Critica della ragion pura – mi diviene possibile rappresentarmi l’identità della coscienza in queste rappresentazioni […] in caso diverso dovrei avere un me stesso variopinto e differente, alla stessa stregua delle rappresentazioni di cui ho coscienza”16. L’identità della coscienza si gioca quindi tutta nel suo sdoppiamento, l’Io diventa un “me”, qualcosa di mio che accompagna  ogni rappresentazione, come un’eccedenza, un “di più” che ne garantisce la certezza. La conoscenza delle cose del mondo può avvenire solo attraverso operazioni rappresentative che prendono avvio da giudizi posti dal soggetto che sta al centro ed è il centro della Rappresentazione. 

Come è noto, Heidegger ha cercato un’altra via. Allo spazio della rappresentazione ha contrapposto una topologia decentrata esistenziale, ossia la spazialità dell’Esserci come “essere-nel-mondo”. Lo ha fatto mettendo in discussione sia lo spazio della fisica comune che quello della filosofia del soggetto (Cartesio e Kant). All’Esserci, cioè all’uomo come lo chiama Heidegger, la spazialità gli appartiene costitutivamente, in quanto essa è “dis-allontanamento” (Ent-fernung) e “orientamento-direttivo” (Ausrichtung) e non estensione, né tanto meno rappresentazione. L’esistenza è già sempre spaziale, non perché si trova dentro al mondo, come quando si dice che l’acqua è nel bicchiere o il vestito è nell’armadio, bensì il suo essere-nel-mondo, in-der-Welt-sein (si badi alle linee che uniscono le parole dell’espressione heideggeriana che demarcano l’unità del fenomeno stesso)17, è un “in-essere”, inteso nel significato dell’antico verbo tedesco innen: abitare, soggiornare. L’Esserci è già sempre l’atto compiuto dell’abitare. Per lui esistere e abitare coincidono. Il suo in è già un essere aperto, è spazialità del prendersi cura del mondo, poiché l’essere, in quanto in, è già la sua casa; per cui entrare o uscire da essa non è facile né è indolore, semmai vuol dire nascere o morire. Sicché il soggetto non è l’uomo nella natura, non è un essere vivente inserito in un ambiente, né è l’animale razionale sotto la volta celeste, bensì è esistenza. Solo l’uomo ex-siste, cioè “sta fuori”. Esistere significa “stare” (sistere) “fuori” (ex-). Il soggetto, per definizione, è perciò un soggetto in uscita, non coincide con se stesso, né possiede propriamente un interno, ma intrattiene un rapporto con il “fuori”, il che è sinonimo di “essere-nel-mondo”. Come si legge in Essere e tempo, l’opus magnum del filosofo tedesco, “non è che l’uomo ‘sia’ e, oltre a ciò, abbia un rapporto col ‘mondo’ che occasionalmente assegna a se stesso. […] Questo assumere relazioni col mondo è possibile soltanto perché l’Esserci è ciò che è in quanto essere nel mondo”18. Di conseguenza, “l’Esserci non è mai innanzi tutto ‘qui’, bensì in quel ‘là’ a partire dal quale esso ritorna al suo ‘qui’”19. Il dove dell’Esserci è perciò sempre dislocato, il “dis-allontanamento” e l’”orientamento-direttivo” sono i caratteri della sua spazialità; tant’è che, per esempio, sinistra e destra non sono qualcosa di soggettivo, avverte Heidegger polemizzando con Kant, ma sono direzioni di orientamento di un mondo già sempre dato, di cui ho familiarità, altrimenti il semplice senso della differenza dei due lati del corpo non basterebbero a dirigermi verso l’una o l’altra parte20. Una tale visione, già da sempre dotata di uno specifico orientamento, Heidegger la chiama Umsich, “avvedutezza” o, diversamente tradotta, “visione ambientale preveggente”, che altro non è che la condizione per realizzare qualsiasi dis-allontanamento che l’Esserci è portato a fare ogni qual volta utilizza le cose. 

Insomma, è alla spazialità vissuta dell’Esserci che va ricondotto il concetto di spazio tradizionale circoscritto dalla Rappresentazione. L’Esserci è colui che, nell’avvedutezza, “fa spazio”, dispone dello spazio e mette ogni cosa al suo posto. Ne consegue che è sul terreno della spazialità dell’Esserci che lo spazio omogeneo e misurabile delle scienze esatte si rende accessibile al conoscere. Quindi né il soggetto è nello spazio (Cartesio), né quest’ultimo è nel soggetto (Kant), ossia è forma pura dell’intuizione che rende possibile la geometria e ogni altra rappresentazione esterna. Non c’è un soggetto che dapprima è senza mondo e poi proietterebbe fuori di sé, in una rappresentazione, lo spazio, bensì è “lo spazio a essere ‘nel’ mondo, perché l’essere-nel-mondo, costitutivo dell’Esserci, ha già sempre dischiuso lo spazio”21. Lo spazio è, in un certo senso, un terzo rispetto al soggetto e all’oggetto; è il luogo dell’incontro con il mondo dove l’uomo, abitandolo, si orienta. Il soggetto così perde la centralità, non è il punto a partire dal quale si disegna la circonferenza, il centro d’irradiazione della Rappresentazione, ma il luogo dell’apertura dell’orizzonte in cui l’uomo si trova a vivere. Solo a partire da queste considerazioni heideggeriane, è possibile, non solo comprendere Cartesio e Kant in ciò che rimane in loro adombrato, ma anche, per esempio, che cosa ha voluto veramente dire la formula “distanziamento sociale”, apparsa durante la pandemia, come paradigma d’organizzazione delle nostre vite. 

Ma questa è un’altra storia… 

  1.  Cfr. R. Arnheim, Arte e percezione visiva, tr. it. di G. Dorfles, Milano, Feltrinelli, Milano 1997; Id., Il potere del centro. Psicologia della composizione nelle arti visive, trad. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1994; W. Kandinsky, Punto, linea, superficie [1926], trad. it M. Calasso, Adelphi, Milano 2017. Per il simbolismo del centro si veda anche R. Guénon, Simboli della scienza sacra, tr. it. di F. Zambon, Adelphi, Milano 1975; M. Eliade, Immagini e simboli, tr. it. di M. Giacometti, Jaca Book, Milano 1980 e Id., Trattato di storia delle religioni [1948], trad. it. di V. Vacca, Bollati Boringhieri, Torino 1986, pp. 377-398. 
  2. J. Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo [1990], ed. it. a cura di L. Acquarelli, Einaudi, Torino 2013, p. 44.
  3.  R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima [1641], in Opere filosofiche, Vol. I, ed. it. a cura di E. Lojacono, UTET, Torino 1994, p. 678. 
  4.  Ivi, p. 674.
  5.  Vale la pena di essere riportato l’intero passo, se non altro per contestualizzare la frase più citata di Cartesio: «mentre volevo pensare che che tutto fosse falso, era necessario che io, che lo pensavo, fossi qualcosa; e notando che questa verità: io penso, dunque sono, era così salda e certa, che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, pensai che avrei potuto accettarla senza timore come primo principio della Filosofia che andavo cercando» (R. Descartes, Discorso sul metodo, in Id., Opere filosofiche, Vol. I, ed. it. a cura di E. Lojacono, UTET, Torino 1994, p. 521).
  6.  M. Heidegger, Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 675. 
  7.  R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima.
  8.  M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile [1964], ed. it. a cura di M. Carbone, trad. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 225.
  9.  Cfr. J. Crary, Le tecniche dell’osservatore, cit., p. 50 e sgg. 
  10.  R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima, cit., pp. 209 e 211.
  11.  Cfr. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione [1945], trad. it. di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano 1972, p. 203.
  12.  Cfr. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2013.
  13.  M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti [1950], ed. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 83-84.
  14.  Ivi, p. 99.
  15.  Ivi, p. 87.
  16.  I. Kant, Critica della Ragion Pura, B 132, trad. it. a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1986, p. 163. 
  17.   Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo [1927], nuova edizione italiana a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi con le glosse a margine dell’autore, Longanesi, Milano 2005, § 12, p. 73 e sgg.   
  18.  Ivi, § 12, p. 78.
  19.  Ivi, § 23, p. 136.  
  20.  Ivi, § 23, p. 138.
  21.  Ivi, § 24, p. 141.

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