I quattro momenti distinti del silenzio
di Raimon Panikkar
- Il soffocamento delle parole. Si tace nonostante si abbia molto da dire. Si tace per prudenza, per accortezza o per paura. Tale silenzio è un ammutolire. Esercita una violenza, mozza il respiro (…).
- Lo sbigottimento delle parole. Si tace per la mancanza di parole adeguate. Si tace per smarrimento, per inadeguatezza o per insipienza. E’ un silenzio che produce distanza, che rifugge il contatto. Lascia atrofizzare e consumare il rapporto vivo.
- L’inadeguatezza delle parole. Si tace perché si avverte di essere alla presa con qualcosa di inesprimibile. Si tace per l’impossibilità di esprimere ciò di cui si è avuta esperienza. Si ha sentore dell’indicibile e se ne è consapevoli. E’ il silenzio di chi rimane senza parola. Lo stupore dinanzi al mistero. Il suo pericolo è l’irrigidirsi e il rimanere bloccati. Qui l’uomo, per lo più inconsapevolmente, è posto dinanzi a una decisione: affermare la vita o scegliere la razionalità. La razionalità: il tentativo di tradurre l’indicibile in parole e in concetti. La vita: il rischio di lasciarsi prendere dall’indicibile rimanendo nel silenzio.
- L’assenza di parole. La parola non è più presente. Resta solo il silenzio. Il silenzio qui non è uno “stare in silenzio”, un azzittirsi in mezzo al frastuono. E non è neppure un tacere perché non si ha niente da dire; piuttosto si tace perché non c’è nulla da dire (…) Qui la parola non esaurisce la realtà. Il silenzio è il silenzio della parola: “Ciò di cui non si può parlare è proprio ciò che dev’essere sperimentato in quanto silenzio” (Wittgenstein).
R. Panikkar, La dimora della saggezza, Mondadori, 1991. Estratto dall’omonimo capitolo, pp. 97-123.