di Franco Prono
Il concetto di silenzio è stato quasi sempre caratterizzato da considerazioni positive anche a livello del senso comune: esso è un elemento che caratterizza la tranquillità, la serenità, il riposo, la possibilità di meditare, di raggiungere la compassione e l’armonia interiore. È stato via via considerato un sintomo di saggezza (Voltaire, Nietzsche), il miglior modo di comunicare con i propri simili (Thoreau), uno strumento efficace per raggiungere la pace (Schopenhauer), l’obiettivo ultimo a cui tende implicitamente ogni opera d’arte (Duchamp).
Silenzio è il titolo del libro straordinario – pubblicato nel 1961 – in cui John Cage ha raccolto alcuni suoi scritti e conferenze-performances che hanno per argomento, oltre alla musica, anche la danza, la pittura, la filosofia zen. L’idea fondamentale espressa
in questo testo è che «non esiste una cosa chiamata silenzio. Accade sempre qualcosa che produce suono». I suoni di qualsiasi genere, anche i “rumori” (che ci disturbano quando vorremmo ignorarli, ma ci affascinano se li ascoltiamo con attenzione) devono
essere liberati – secondo Cage – dall’intenzione, dal gusto, dalla storia, dalla memoria, per vivere di vita propria, in quanto sono elementi costitutivi della musica alla pari delle note. La musica dei suoni è pertanto ovunque «nel mondo che ci circonda, in una macchina per scrivere, o nel battito del cuore, e soprattutto nei silenzi», o meglio nei presunti, immaginari silenzi che crediamo di sentire. In realtà non ci è assolutamente possibile avere esperienza alcuna del silenzio perfetto, assoluto. Esso esiste soltanto in un vuoto pneumatico in cui l’orecchio dell’uomo non può entrare. Ovunque vi siano persone o qualche forma di vita c’è qualche tipo di suono, anche in una camera anecoica capace di sottrarre ogni suono dall’ambiente l’uomo non può non sentire il battito del proprio cuore e il pulsare del sangue nella propria testa. La ricerca del silenzio da parte nostra è dunque assolutamente utopica. Per
qualsiasi essere vivente il silenzio non esiste.
Cage ha fornito la dimostrazione pratica di queste sue considerazioni in vari brani musicali, ma soprattutto nel notissimo 4’33”, composizione in tre movimenti per qualsiasi strumento o ensemble. Per 4 minuti e 33 secondi l’esecutore non suona nulla, resta fermo davanti al proprio strumento, ma l’ascoltatore nella sala da concerto non ha esperienza del silenzio, bensì ode i suoni, i rumori casuali dell’ambiente, dallo scricchiolio delle sedie al ronzio di qualche insetto, dai colpi di tosse alle espressioni di nervosismo del pubblico. Questa performance provocatoria che in un primo momento provoca smarrimento in chi ascolta, ha l’obiettivo di dimostrare che i suoni dell’ambiente in cui noi viviamo, nel momento in cui siamo costretti a sentirli distintamente e ad accettarli, diventano una musica – che ha fine soltanto quando termina il tempo prescritto dal compositore – molto più interessante di quella di un concerto tradizionale. Questo discorso può generare una serie notevole di conseguenze pratiche e teoriche in ogni campo espressivo, affermando la natura ludica dell’arte la quale accetta la casualità, rifiuta le regole e realizza la coesistenza di valori apparentemente opposti tra loro i quali, al di fuori dalle dicotomie del pensiero occidentale, producono significazioni altre, realizzando così l’incontro paradossale tra silenzio e suono, reale e fantastico, visibile e invisibile.
Cage stesso riconosce lo stretto legame che le proprie considerazioni su suono e silenzio hanno con quelle su spazio e vuoto sollevate dai dipinti monocromatici di Malevič e Rauschenberg: «I quadri bianchi sono arrivati per primi, il mio brano silenzioso più tardi». Una tela dipinta uniformemente di bianco non è affatto “vuota”, ma al contrario è piena di luce, di spazio libero, di possibilità infinite. Ricordo una dichiarazione in questo senso di Piero Manzoni: «non riesco a capire i pittori che si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme. […] Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura e assoluta?» Spostando queste riflessioni nel campo del cinema, ricordiamo come l’infanzia della settima arte sia identificata con il cosiddetto “cinema muto”. Dal 1895 al 1929/1930 il cinema era “muto” nel senso che non aveva i mezzi tecnici per riprodurre i dialoghi tra gli attori di un film, e così li sostituiva con didascalie. Non era però “silenzioso” in quanto il pubblico riceveva stimoli sonori a diversi livelli durante le proiezioni: c’era sempre un accompagnamento musicale “dal vivo” (tramite un’orchestra, un piccolo gruppo di strumentisti o un pianista solista), talora non mancava chi accanto allo schermo riproduceva alcuni dei rumori inerenti le immagini o leggeva le didascalie ai numerosi analfabeti presenti, infine la sala era fonte di rumori d’ogni genere e molti spettatori intervenivano con battute, osservazioni, proteste. Il “silenzio” nel cinema muto, dunque, non esisteva. Secondo Robert Bresson il silenzio è stato inventato dal cinema sonoro. Non dimentichiamo inoltre che lo spettacolo cinematografico ha sempre avuto la grande capacità di stimolare l’immaginazione e la fantasia degli spettatori, al punto da suggerire loro suoni inesistenti ma immaginati.
Le caratteristiche spettacolari del cinema hanno progressivamente indotto registi e produttori a riempire le inquadrature di musiche coinvolgenti e orecchiabili e di immagini accattivanti, piacevoli, sorprendenti, mettendo in scena una ricchezza sonora e visiva talvolta sovrabbondante: un horror vacui utile per garantire gli incassi al botteghino. Non mancano però gli autori che si sono mossi in direzione opposta, smontando la becera spettacolarità, rifiutando la banale messa in scena di una sceneggiatura, togliendo di scena tutto ciò che non è essenziale a livello espressivo. Pensiamo ad esempio ai film di Michelangelo Antonioni, alla loro scarnificazione narrativa, alle loro sobrie colonne sonore – soprattutto quelle di Giancarlo Fusco – costituite soltanto o soprattutto da rumori e suoni registrati dalla realtà, alla ricerca incessante dell’inquadratura più semplice e povera, quasi vuota e perciò stesso significativa ed espressiva. Si tratta proprio di un cosciente e programmato amor vacui (così si intitola, tra l’altro, un bel libro di Nicola Ranieri su Antonioni).
Occorre notare che sono radicalmente diverse le considerazioni che generalmente vengono fatte sul silenzio e sul vuoto. Mentre – come già rilevato – l’idea del silenzio è quasi sempre accompagnata da elementi concettuali e percettivi positivi, accattivanti e piacevoli, per lo più il concetto di vuoto provoca negli esseri umani un profondo senso di inquietudine e angoscia che spesso emerge anche a livello onirico. Disegni, dipinti, incisioni, iscrizioni, bassorilievi di ogni epoca e paese testimoniano un diffuso horror vacui che viene esorcizzato grazie alla raffigurazione di una folla di segni geometrici, simboli, elementi naturali, esseri viventi. D’altra parte l’agorafobia, l’acrofobia e la kenofobia costituiscono forme di disagio provocate nella psiche umana da uno spazio percepito come vuoto. Esse possono configurarsi come vere e proprie patologie, o accompagnare patologie di diverso tipo, ma in generale la diffusa paura del vuoto pare provocata nell’uomo dalle sue proprie condizioni esistenziali: senso di perdita e di isolamento, disillusioni, crisi di identità, incapacità di controllo, terrore per la morte come annullamento totale.
Peraltro il silenzio e il vuoto hanno in comune una caratteristica fondamentale: per quanto vengano da noi percepiti talvolta con grande evidenza, non possiedono alcuna reale consistenza nell’ambito dell’esperienza umana. Il silenzio non esiste, abbiamo già detto; ma nemmeno il vuoto esiste: già Aristotele affermava che «la natura rifugge il vuoto e perciò lo riempie costantemente», così che il mondo è “pieno” di elementi naturali, è esso stesso natura. Gli uomini, dal canto loro, si sono sempre impegnati a riempire qualsiasi tipo di spazio che potesse sembrare vuoto, fino agli eccessi che spesso vediamo nelle metropoli contemporanee. Secondo alcuni astrofisici gran parte dello spazio intergalattico è costituito da un vuoto quasi perfetto, in quanto vi è presente un piccolissimo numero di molecole per metro cubo. Altri ipotizzano addirittura che in certe regioni dello spazio non esistano atomi e molecole di alcun tipo, per cui lì ci sarebbe il vuoto perfetto. Ma anche in questo caso non potrebbero non essere presenti radiazioni, campi gravitazionali ed elettromagnetici, flussi di energia potenziale, curvature spazio-temporali: una enorme quantità di realtà fisiche che comporterebbe ovviamente l’assenza del vuoto assoluto.
Bibliografia
John Cage, Silence, Westleyan University Press, Middletown, Usa, 1961; Ultima edizione italiana: Silenzio, Il Saggiatore, Milano, 2019.
Nicola Ranieri, Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni, Meta Editore, Treglio, 2013.
Immagine in evidenza:
Giuseppe Chiari, Weisse Rose 4, 1974.