Istruzioni per perdersi  

di Andrea Rebecca Mancuso

Siamo abituati a ragionare in termini categorici, lasciando che le dicotomie imperino nella nostra quotidianità. Le nostre vite sono scandite da due poli che si oppongono e che entrano spesso in conflitto. Così c’è un bianco e un nero, un buono e un cattivo e, nel caso su cui ci vogliamo soffermare, un centro e una periferia. Invece di dividere e allontanare, ci sarebbe bisogno di intrecciare queste due opposizioni. La linea netta di confine si trasformerebbe in soglia, in luogo di passaggio, dove le due unità si con-fondono. Forse vi è capitato di aver camminato per una città e di non esservi accorti di essere finiti in quel luogo considerato periferico. Anche se, a vostra insaputa, quell’esperienza potrebbe essere stata unica nel suo genere. Ormai i navigatori ci preordinano determinati percorsi, con tanto di conteggio dei minuti che impiegheremo. Ma, così facendo, catturati dallo schermo, ci siamo preclusi la possibilità di cogliere le sfumature dei luoghi, quel susseguirsi rapido che va dal centro alla periferia, in una sorta di continuità, scivolando, senza accorgerci, nella loro differenza che comunque è presente. Ecco che allora io percepisco il paesaggio ininterrottamente, senza tagli, perché la mia visione è uniformata, così come esso stesso si mostra a me senza discontinuità. Io abito quel luogo, in cui sono immerso e che sto, appunto, guardando. Simultaneamente, nel momento in cui ci entro in contatto, mi abita a sua volta, perché il mio corpo è, egli stesso, un luogo. Una soglia dove chi ci sta di fronte spesso ci fa paura come una periferia a noi sconosciuta: abbiamo timore che il nostro centro venga destabilizzato. Se rileggessimo, in questa chiave, la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo, inizieremmo a renderci conto che Io, che mi considero il centro, ripenso a me stesso come la periferia di qualcun altro, così come l’Altro, in questo momento, è periferia per me. Ne consegue che non è possibile porre un dualismo assoluto tra soggetto e oggetto. Non si può astrarre il mio corpo dal corpo dell’altro, così come non si può astrarre il centro dalla periferia. Una parte vive insieme all’altra e viceversa, si rispecchiano e comunicano in una relazione costante. Per usare un termine ricavato dalla filosofia di Maurice Merleau-Ponty, è un chiasma, un vero e proprio modello, per interpretare gli intrecci che si nascondono sotto la superficie della nostra ricostruzione intellettuale del mondo. Pertanto, il corpo diventa fulcro della percezione spaziale perché in base ad esso determino e rinomino ciò che mi circonda. Di conseguenza, diventa strumento per la riappropriazione dei luoghi stessi. È attraverso questa riconsiderazione della percezione che Io posso smettere di aver paura dell’Altro, e di considerare ogni periferia un luogo pericoloso, allontanandomi da tutti i pregiudizi. 

Ora, possiamo rivolgerci ad una teoria situazionista per poter imparare nuovamente a guardarci intorno. È la teoria della deriva che ci dà vere e proprie istruzioni per perdersi, come se ci si dovesse, appunto, perdere completamente prima di potersi ritrovare. Guy Debord, esponente dell’Internazionale Situazionista, afferma che la deriva è una sorta di comportamento sperimentale che si appella alla psicogeografia, un metodo che, come suggerisce il nome, implica uno sguardo psicologico applicato alla geografia. Ciò vale a dire che noi sviluppiamo le prospettive del futuro attraverso questo atteggiamento, il quale ci permette di apprendere l’ambiente urbano in modo ludico. Debord ci spiega fin da subito che questo concetto si oppone a quello di viaggio e di passeggiata, perché implica il lasciarsi andare (cosa che, come abbiamo visto precedentemente, non facciamo per via dell’indirizzamento imposto dai nostri dispositivi). La deriva la si può praticare da soli o in gruppi di due o tre persone, senza sforare questo numero, per evitare di frammentare la deriva del gruppo in più derive simultanee. La durata media è di una giornata e sono sconsigliate le ore notturne. Dal punto di vista spaziale, il filosofo francese lascia la possibilità di poter scegliere l’estensione del campo limitando solo ad un minimo, rappresentato dall’isolato, e da un massimo, vale a dire la città e le sue periferie. Di grande importanza è ciò che Debord chiama appuntamento possibile, ossia quel comportamento spaesante che slega il soggetto percipiente dagli obblighi degli appuntamenti che si fissano normalmente. S’intende che questo appuntamento lo ha portato in un luogo, ma in modo inaspettato, quindi egli osserva i dintorni. Facendo così, si potranno creare altre possibilità come, per esempio, quella di parlare con i passanti. In conclusione, la teoria della deriva insegna a riconoscere un’unità ambientale e le sue direttrici principali di passaggio. Essa pone l’accento su come le linee di confine non siano nette, ma piuttosto estese e, di conseguenza, mira a diminuirle sempre più fino alla loro completa abolizione. La dialettica centro-periferia trova, così, una conferma visiva.  

Bibliografia 

  • G. Biondillo, Sentieri metropolitani. Narrare il territorio con la psicogeografia, Bollati Boringhieri, Torino 2022.  
  • G. Debord, Théorie de la dérive, in Internationale Situationniste, n° 2, dicembre 1958, Parigi;  trad. it. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994. 
  • P. Nepi, Merleau-Ponty. Tra il visibile e l’invisibile, Edizioni Studium, Roma 1984. 

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