di Livia Maria Araldo
Il silenzio è la mancanza totale di rumori, dunque il silenzio non è, ma ha un peso. Il momento d’intervallo tra la voce ed il silenzio non può essere che la realizzazione.
Alcuni fugaci silenzi sono l’allestimento di silenzi più lunghi e consapevoli, fungono da chiasmo tra rumore e quiete, non dell’animo ma del movimento: dall’attimo del movimento lineare si ottiene un quasi impercettibile momento di stasi prima della caduta libera che porta l’assenza di suono interiore ed esteriore. Tale picco emotivo si sperimenta in innumerevoli eventi e sotto ancor più svariate modalità: non esiste continuità tra voce e silenzio senza il climax di coscienza.
Il lutto è il più chiaro esempio: passa dal chiasso della vita alla caduta della morte, non è però possibile questo passaggio senza l’aver appreso l’accaduto e aver avuto quell’attimo in cui tutto si ferma con una fitta allo stomaco.
Ci sono realtà che contengono in esse questa pesante analogia senza mai contraddirsi, come le arti. Sono la massima espressione di movimento senza produrre un singolo passo, suonano e colorano i silenzi, provocano rumori senza mai contraddirsi: un blocco di marmo è più espressivo e passionale degli uomini che hanno scelto di vivere senza cultura; la pausa tra una strofa e l’altra è l’equivalente del “Sabato del villaggio”; uno schizzo sulla tela è l’intera umanità che collassa su sé stessa.
Per quanto il silenzio non sia, è. Ed è sacro ed è profano, lode e disprezzo, divino e tremendamente concreto. Basti pensare alle rappresentazioni delle Deposizioni di Cristo, esso è stato privato delle sue sacralità ed aveva quindi cessato di essere linearità, prendendo invece le sembianze del vuoto. Realizzazione.
Perché è per la prima volta corporeo, è tangibile ed un corpo morto non è più sacro ma è silenzio.