La centralità del silenzio attivo all’interno
delle manifestazioni e nell’attivismo
postmoderno
di Sara Davalli
Lo psicologo statunitense, ideatore della Comunicazione Non-violenta, Marshall Rosenberg (1934-2015), sosteneva che “Le parole sono finestre oppure muri”. Ossia, vi è una posizione di ambiguità assunta dalle parole, le quali possono essere utilizzate – a qualsiasi livello comunicativo – per due scopi: aprire finestre di dialogo attraverso una comunicazione non violenta, oppure erigere muri divisori innescando una comunicazione conflittuale.
Partendo da queste analisi di Rosenberg, sembra naturale pensare che la parola-finestra sia uno specchio limpido che riflette le nostre intenzioni, e per questo, un efficace medium per sciogliere ogni conflitto ed abbattere i muri che ci dividono.
Tuttavia, è fondamentale tenere in considerazione che la parola è sì il medium della comunicazione verbale ma, in quanto medium, non è mai neutra, si presta più di quanto immaginiamo a manipolazioni e narrazioni distorte dalla plurima interpretazione. Date queste caratteristiche sfaccettate e complesse della parola, per niente trasparenti e univoche, è necessario allora spostare la nostra attenzione sullo sfondo da cui la parola emerge: il silenzio. Si tratta quindi di cercare i diversi modi di darsi del silenzio, e del ruolo che può avere quest’ultimo nell’attivismo insieme alla comunicazione non verbale. Questa riflessione risulta più fluida se mettiamo a fuoco le caratteristiche della nostra civiltà postmoderna: una civiltà globale e multiculturale, in cui l’espressione del pensiero è veicolata principalmente dai media, che connettono o spesso iperconnettono gli individui, sostituendo le relazioni di scambio con i collegamenti virtuali.
La fitta gabbia di codici della nostra società favorisce ed esalta una partecipazione al dibattito vuota e per questo sterile, segnata dalla passiva visualizzazione, dalla continua dispersione di energie e attenzioni, dalla superficialità nei giudizi e dalla ambigua fusione di vero e falso. Anche soltanto rispetto a qualche decennio fa, il paradigma entro il quale la nostra società si presenta è cambiato. Tutto muta sempre più rapidamente. Basti pensare alla crisi della gran parte dei soggetti di mediazione sociale, dal sistema dei partiti politici all’informazione giornalistica, alla scuola come luogo d’incontro. Dunque, per poter essere efficace, anche l’attivismo deve prendere coscienza di questi cambiamenti e adattarsi alla nuova situazione.
Se viviamo immersi nella giungla di suoni, voci, immagini e notizie della città-metropoli, se si è di fronte ad una saturazione di stimoli grottesca e paradossale, dove ogni possibile critica è già stata mossa, detta o scritta, allora è qui che potrebbe entrare in campo il tema del silenzio e l’universalità dei linguaggi non verbali, capaci di contrastare questa situazione satura e apatica, e riattivare il coinvolgimento emotivo attivo di chi partecipa. A differenza della parola che si impone tempestivamente con violenza, il silenzio è una condizione sempre più rara, che però conserva ancora intatta la sua gentilezza e la sua forza nel momento in cui diventa espressione consapevole.
Nella società odierna è possibile rintracciare molte manifestazioni del silenzio. Il primo è il silenzio degli indifferenti, l’assenza di pensiero critico di coloro che credono di essere ininfluenti: resi esausti dalla vita rinunciano ai loro desideri, smettono di cercare, di credere. Il secondo è il silenzio imposto dai regimi che generano paura e panico, questa è la condizione di chi è stato disinnescato come individuo scomodo ed è costretto a non esprimersi. Un ulteriore esempio di silenzio, è quello generato dall’accumulazione di voci provenienti simultaneamente da più fonti, le quali non si ascoltano tra loro; ne è un chiaro esempio la modalità comunicativa social o del talk show, in cui tutte le voci di chi prende parte allo pseudo dibattito si accavallano con irruenza senza portare ad alcuna riflessione o conclusione critica. L’estrema deriva di questo atteggiamento è il “movimento generale di scomparsa di ogni autentica competenza”, fenomeno per cui chiunque può parlare di qualsiasi argomento senza alcuna preparazione specifica. L’ultimo e sicuramente il più significativo, è rappresentato da chi sceglie di fare del silenzio attivo la propria forma di manifestazione non violenta. Ne è un esempio la protesta silenziosa a sostegno del movimento Black Lives Matter guidata dall’artista Jo’Artis Ratti il 31 maggio 2020, a Beverly Hills, a seguito degli scontri tra manifestanti e polizia armata. In questa esibizione, la musica è il rumore della strada, è creata dalle persone che applaudono o partecipano, è il cuore dell’artista che batte alimentato dalla tensione del momento e dall’adrenalina.
Tutte queste energie trovano espressione nella danza. Lo stile con cui ha danzato Jo’Artis Ratti è il krumping, una modalità espressiva che permette di contrattaccare e rispondere pacificamente al sistema che alimenta la disumanità e l’odio. Questa danza nasce durante gli anni ‘90 negli Stati Uniti, si articola in un vocabolario espressivo molto dirompente basato su gestualità, mimiche e pose istintuali connesse a stati emozionali intensi: braccia protese verso il vuoto, piedi che battono a terra, pugni alzati e un susseguirsi di energie che esplodono o implodono nel corpo del performer. Il krumping porta alla luce con grande forza il dolore vissuto dalle comunità più colpite dalle discriminazioni razziali, nel rispetto della distanza interpersonale e senza creare alcun contatto fisico.
L’arte del silenzio attivo impiega come arma principale la grande potenzialità del non detto; è così che riesce ad insidiarsi nelle crepe del grottesco, aprire nuovi varchi e mettere a nudo la struttura che regge i paradossi, la violenza, l’ingiustizia, di cui vorremmo silenziosamente fare a meno.
Contributo video a sostegno dell’articolo:
immagine in evidenza di Sara Davalli