Da Hölderlin a Camus e Malaparte,
l’idea di libertà degli artisti e intellettuali scomodi
di Andrea Balzola
Abbiamo fondato una nuova filosofia della libertà, ma su cosa si fonda la libertà? Coltivare la ragione, sforzarsi senza tregua di migliorare il proprio spirito critico. Non accettare alcuna autorità, ma verificare tutto in prima persona. Conservare il silenzio e anche il segreto sulle verità che abbiamo acquisito, se non serve a nulla rivelarle.”
Nella frase citata il grande poeta tedesco Hölderlin (1770-1843) esprimeva la sua visione della libertà, maturata quando era compagno di studi e di stanza dei filosofi Hegel e Schelling al collegio teologico universitario Stift di Tubingen. Erano gli anni della rivoluzione francese e i tre geniali giovani guardavano a quegli eventi con entusiasmo, identificando nei moti giacobini la possibilità di un nuovo vento di libertà e giustizia sociale per tutta l’Europa, all’epoca dominata da aristocrazie oppressive, ultraconservatrici e parassitarie. La degenerazione di quegli ideali rivoluzionari nell’epoca del Terrore e la successiva restaurazione monarchica avevano poi affossato quelle aspirazioni, ma Hölderlin non rinunciò a immaginare una nuova repubblica, non quella dei fanatici tagliatori di teste francesi, piuttosto quella dei liberi e pacifici cittadini evocata dai filosofi dell’antica Grecia. Non si faceva però illusioni quando scrisse: “Sì, un tiranno può bandire il mare, impedire il corso delle stelle, fare a brandelli le leggi dell’amore e la vita sacra della natura, sì, può farlo! I fratelli che si erano risvegliati si sono addormentati di nuovo, i sovrani continueranno ad esistere sotto altro nome, ad essere serviti e riveriti. I popoli muoiono di stenti e rinunciano ai loro diritti.” Come nella profezia del poeta, i sovrani odierni non indossano più corone, e il loro modo di comandare è più subdolo e astuto, resta il fatto che i popoli soffrono le decisioni dei potenti e rinunciano ai loro diritti, nelle repubbliche democratiche possono votare ma quella delega in bianco non garantisce poi un’effettiva partecipazione e condivisione politiche, e nemmeno il rispetto dei diritti delle minoranze. Noam Chomsky ha elaborato forse la definizione più precisa di democrazia: “un’illusione necessaria”, un’aspirazione fondamentale che deve fare i conti con l’enorme difficoltà degli uomini di realizzare la libertà personale e collettiva. La libertà fa paura non solo agli oppressori ma anche agli oppressi, perché significa assumersi la responsabilità delle proprie idee e dei propri comportamenti, significa accogliere ed esprimere le verità dei fatti, dei pensieri e dei sentimenti. Due grandi artisti e intellettuali scomodi del Novecento, Albert Camus (1913-1960) e Curzio Malaparte (1898-1957), hanno testimoniato con la loro vita e la loro opera la libertà e l’anticonformismo del loro pensiero (un’altra figura emblematica è stata sicuramente quella di Pasolini, ma di lui si parla più spesso), pagandone spesso il prezzo di attacchi ideologici pregiudiziali da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso. Hanno combattuto con le armi dell’arte la loro battaglia libertaria: “Seppure involontariamente noi artisti siamo impegnati. Non è la lotta a renderci artisti, ma è l’arte che ci costringe a essere combattenti. Per la sua stessa funzione l’artista è il testimone della libertà e questa è una motivazione che si ritrova a pagare cara. Per la sua stessa funzione egli è impegnato nelle profondità più inestricabili della storia, là dove soffoca la carne stessa dell’uomo” (A.Camus) In questa citazione dell’autore de L’uomo in rivolta si trova un passaggio cruciale, nel quale si esprime l’idea che l’artista non sia libero perché lo vuole ma perché ha bisogno di esserlo, dove non c’è libertà non ci può essere originalità e creatività, ma solo replica canonica del noto o dell’imposto: formula invece di forma, stereotipo invece di prototipo, alienazione invece di sperimentazione, piaggeria invece di ricerca, propaganda invece di pensiero. L’arte autentica è quindi una pratica spontanea di verità, anche quando agisce mediante la menzogna, l’illusione, la finzione, la simulazione, il fantastico, l’irreale e il surreale, questo è il suo paradosso : “L’arte è una menzogna che ci fa capire la verità” (P. Picasso). Non è perciò una menzogna per occultare o per manipolare la verità, come invece accade nelle intenzioni e nelle strategie del potere e dei media che gli sono asserviti, è invece una finzione che svela e rivela. Per gli antichi greci, che conoscevano la sapienza delle parole e attraverso le parole, la verità era “aletheia”, ovvero “svelamento”, “rivelazione”, togliere il velo del Lete, il fiume dell’oblio. In questo senso, l’arte va controcorrente, non si sottomette ai luoghi comuni e all’artificio comunicativo della “distrazione di massa” inoculata dai media, che come diceva Carmelo Bene, altro genio anticonformista: “non informano sui fatti, ma formano i fatti”. La figura dell’artista è simile al fool shakespeariano, colui che dice la verità, anche la più scomoda e sconveniente, in faccia al tiranno e ai suoi sudditi, innanzitutto perché la sua sensibilità è capacità di ascolto e di osservazione, e poi perché non sa rinunciare ad esprimere quel che vede e sente.
Curzio Malaparte non fu indenne da scelte sbagliate, come la sua iniziale adesione al fascismo poi rinnegata pagando con il confino e partecipando alla Resistenza, ma mantenne sempre un’indipendenza di pensiero e un’avversione dichiarata per le menzogne: il suo romanzo d’esordio (Viva Caporetto!) fu censurato e bandito perché denunciava l’inettitudine e la crudeltà del comando dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, che mandò al macello migliaia di giovani facendo poi ricadere sui soldati la responsabilità degli errori strategici dei loro ufficiali; dopo la liberazione di Napoli raccontò nel romanzo La pelle (da cui la regista Liliana Cavani trasse un film con Mastroianni) senza timori o filtri i comportamenti illeciti degli occupanti americani e di chi sfruttava la miseria e la disperazione dei più poveri per fare mercato di donne, bambini, usura e contrabbando. Già durante il ventennio fascista e poi nel dopoguerra repubblicano, attraverso la narrazione pungente dei suoi romanzi e dei suoi reportages giornalistici, Malaparte identificò con chiarezza un vizio universale, ma particolarmente radicato in un’Italia che fatica ancora oggi ad uscire dalla mentalità del vassallaggio feudale, clientelare o mafioso: “Il popolo italiano ha più di ogni altra cosa bisogno di verità. Più che del pane. Il pane di un popolo nasce dalla verità, che è sinonimo di libertà, non dalla menzogna, che è sinonimo di servitù. (…) Gli italiani, purtroppo, preferiscono la menzogna alla verità. E’ più facile, meno pericoloso, più comodo, e più redditizio, credere nella menzogna che nella verità. La menzogna li lascia tranquilli, dà loro il senso della sicurezza morale e materiale. La verità non solo non li fa arrossire, ma li spaventa, turba i loro sonni, mette in pericolo i loro meschini compromessi di tutti i giorni. La verità è nemica del conformismo. E purtroppo gli italiani inclinano ad essere conformisti con la menzogna, piuttosto che con la verità. Sanno che si tratta di una menzogna, ma vi si conformano. (…) Se si vuol portare rimedio alle miserie del popolo, se si vuol aiutare gli italiani a conquistarsi libertà, giustizia, leggi oneste e civili, occorre parlar chiaro, denunciare ad alta voce i soprusi, le violenze, le corruzioni e le frodi.” Malaparte scriveva queste parole nella prefazione di una raccolta di articoli, Due anni di Battibecco, nel lontano 1955, ma purtroppo sembrano essere scritte oggi.
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