Dalla fonometrografia di Satie
alla spazializzazione della voce di Wishart
di Gabriele Perretta
Se guardando la vetrina di un negozio di strumenti musicali, vi capitasse di osservare una specie di piccolo pianoforte, non pensate che si tratti di un modello per i più piccoli. Si tratta invece di un altro strumento dallo strano nome femminile: la Celesta. Questa sorellina minore del pianoforte, dalla tastiera che si estende per quattro ottave, è, come abbiamo detto, molto somigliante al suo grande fratello, ma ne differisce, oltre che per le dimensioni, per una piccola variante nel meccanismo: i martelletti, anziché battere sulle corde, colpiscono lamine metalliche, e il suono che se ne sprigiona è tenue e dolcissimo come la voce del dire poetico, del segno vocale etereo.
La celesta non è infrequente nelle orchestrazioni moderne dove il pieno degli strumenti tace in pause, che vengono scandite dalla «piccola voce minoritaria». Particolarmente adatta nell’operetta, nella pantomima e nell’affabulazione danzante, per accompagnare il teatro dell’immagine, la celesta compare nelle grandi orchestre come voce minore, come strumento micro/sensibile, ossia la voce sussidiaria che si fa centrale: respiro! Un celebre esempio di voce sola della celesta, si ode nel balletto Schiaccianoci di Cajkovskij. Il piccolo vocalizzatore materico che sembra aver zittito gli altri per farsi ascoltare, leva la sua voce ricamando nell’aria una melodia che ricorda fraseggi moderni. Nella suite Gli Uccelli di Ottorino Respighi, la voce della celesta imita invece quella del respiro o il mormorio della poesia. E si potrebbero elencare voci musicali molto note, ma forse, riascoltandole, preferite divertirvi e riconoscere da soli la presenza della voce nello strumento, o meglio come segno strumentale. L’avventura che apre gli Scritti di Erik Satie recita così: “A chiunque/ vieto di leggere, ad alta voce, il testo durante l’esecuzione della musica. Ogni inosservanza di questo ammonimento determinerebbe la mia giusta indignazione verso l’impudente./ Non sarà accordato nessun lasciapassare”. Nelle Memorie di un amnesiaco, facendosi l’autoritratto, Satie continua a scrivere: “Fin dall’inizio della mia carriera, mi sono immediatamente situato tra i fonometrografi. Le mie opere sono pura fonometria.[…] Credo di poter dire che la fonologia è superiore alla musica”. Per cogliere a pieno il valore magico della voce, è però necessario porre attenzione alla struttura interna del linguaggio e al processo che porta l’umanità alla nominazione del suono.
Il suono e i suoi interpreti: interpretante vale qui nel senso di proto-accordo; interpretante è il segno sostitutivo di un altro segno, quello che ne determina l’espressione, che lo comprende appunto, che permette di sostituire una parola a un suono. Voce è infatti tutto ciò che può essere detto, sostituito con altre voci, cioè i suoi interpretanti, i suoi vocalizzatori, le sue significazioni, le sue performance! Fonometrografare non è solo produrre segni, ma anche essere segnicamente prodotto: vocalizzo tramite i suoni e ne sono fonetizzato.
Considerare la voce come segno non vuol dire solo che essa rinvia a qualcos’altro, sta in luogo di qualcos’altro: ciò che occulta, ciò che rappresenta, ciò che armonizza. Come segno la voce ha anche qualcosa che sta, che può stare, in un suo spazio.
Una voce è tale non solo in quanto sonorizza, ma anche in quanto è sostituibile, in quanto ha un interprete, una serie aperta di espressioni.
Una voce è segno di qualcosa, e qualcosa è segno della voce. Il suono umano è segno non solo per ciò che è nella sua invisibilità, perché ha un dietro, ma anche perché ha qualcosa di spazializzato, rinvia direttamente all’immateriale, lo rende concreto, umano, materico e invisibile. Questa duplicità della voce, il suo essere, al tempo stesso presente e assente, viene perduta di vista ma agisce sull’orecchio dell’altro come ciò che prende il posto di qualcosa che è anteriore, originale rispetto ad essa.Non si tratta soltanto del rapporto fra strumento e voce: la voce è un segno solista, e come tale può cantare sull’invisibilità della parola e s/parlare sulla visibilità del fonometrografo. Trevor Wishart non è soltanto un compositore, che ha dedicato parte della sua carriera alla composizione di musiche attraverso il calcolatore, ma risulta una figura di grande interesse anche per il contributo che ha dato e continua a dare alla disciplina attraverso l’insegnamento dell’esperienza vocale e la promozione dell’espressione come voce altra. Trevor Wishart nasce a Leeds, in Gran Bretagna, nel 1946. Wishart non ha mai occupato un posto ufficiale nel mondo accademico, che fosse un’Università o un Conservatorio, scegliendo una carriera indipendente. In Wishart, la vocalità e l’improvvisazione scorgono un ambito di applicazione collettivo attraverso l’uso degli apparecchi elettronici, sia analogici che digitali. Wishart, ben presto, intuisce che le sue ricerche sonore potevano essere diffuse e unificate in ambiente informatico. È vero, infatti, che l’attenzione di Wishart verso il computer non nasce per un arbitrario interesse verso il “mezzo informatico”, ma piuttosto si basa sulla consapevolezza che il computer riporta a miglior resa i processi già attuati con mezzi analogici. La produzione elettronica di Wishart spazia anche nell’ambito teatrale, confermando il rapporto tra “vuoto, astrattezza e espressione”. Tra questi lavori ricordiamo, oltre Tuba Mirum (1978), in particolare Fidelio (1977) e Pastorale (1980) per il loro uso dei mezzi elettronici. Si tratta di lavori di cui Wishart sottolinea la distinzione rispetto all’opera musicale tradizionale, facendoci immaginare una struttura di Celesta ideale che scorre sull’impianto e la performance di tutto il corpo attoriale plurimo. Il musicista inglese preferisce parlare di musica per teatro, ovvero come un’esecuzione musicale in cui anche la gestualità, l’azione, i costumi e tutte le altre convenzioni teatrali svolgono un loro ruolo: spazializzazione della voce. A cavallo tra la produzione analogica e quella digitale troviamo il ciclo di composizioni intitolato VOX. L’intera sequela è stata organizzata in sei lavori, perché l’intenzione di Wishart era di cercare di scoprire differenti tecniche vocali. Un posto speciale è occupato, visto l’utilizzo del pc, da VOX 5. Per l’effettuazione di questa composizione Wishart ha incrementato dei software che gli hanno permesso di svuotare i dati analitici ottenuti con il Phase Vocoder. Tra i più apprezzabili ricordiamo quelli che gli hanno permesso di sganciare, lungo lo spettro sonoro, stretching e morphing.
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Pablo Picasso, Ritratto di Erik Satie, 1920.