di Laura Di Teodoro
Il pensiero comune tende spesso a interpretare la periferia come luogo di svantaggio, di margine rispetto al centro, punto nodale, luogo vitale. Accade, però, che il centro possa trasformarsi in accentramento e che la periferia diventi il margine dal quale poter pensare e attuare processi di resistenza.
Si pensi all’odierna concentrazione informazionale e mediatica che, distinguendosi tra i connotati principali dell’infosfera contemporanea, conduce la collettività alla deconcentrazione, in termini di dispersione e anestetizzazione collettiva. Nello specifico, con il termine infosfera si intende l’abbondanza dei segni, delle informazioni, dei mezzi di comunicazione e dei dispositivi che nel contemporaneo definiscono i rapporti tra gli individui su più livelli, sottoponendo questi ultimi a gerarchie e processi di soggezione non scelti e determinando, soprattutto nel contesto virtuale, la nascita di uno sciame (Han, 2015) a discapito del senso della collettività. Viene a mancare progressivamente l’incontro con l’altro, il dialogo, l’inter-azione che consente al soggetto di divenire come individuo e, per esteso, come collettività pensante. Viene meno soprattutto l’incontro con il sé mancando il tempo dell’esperienza che, necessitando di lentezza e attenzione, è al contrario surclassata dall’abbondanza di stimoli, contenuti e dati che si cerca di affrontare e digerire tramite le logiche del multitasking. Ne consegue, pertanto, la deconcentrazione dell’individuo-utente che vive in uno stato di anestetizzazione perenne tesa a indebolire il pensiero critico, la capacità di selezione dei contenuti, la memoria, lo sguardo al presente e al contempo il riguardo verso il passato.
All’interno di una dimensione tale, l’antiarchivio può funzionare da dispositivo di periferia mediatica, quindi come strategia di resistenza per sopravvivere all’infosfera circostante e alle sue peculiarità, consentendo all’individuo di recuperare un approccio vigile e attivo nei confronti della realtà informazionale: “Sali sull’onda o muori. Non puoi tenerla sotto controllo, ma puoi cavalcarla” (Pepperell, 1995) ha scritto in maniera lapidaria Robert Pepperell all’interno del Manifesto del Post-Umano.
Nello specifico, il termine antiarchivio è preso in prestito dalla storica dell’arte contemporanea Cristina Baldacci che nel testo Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea (2016) lo utilizza per riferirsi a quei progetti artistici e culturali i quali, avendo alle spalle l’archivio come luogo di ricerca o come modello di riferimento, disattendono di fatto i principi che lo caratterizzano: la correlazione tra il soggetto produttore e l’archivio creato e la classificazione cronologica e gerarchica del materiale raccolto. Il soggetto che costituisce un antiarchivio, infatti, tendenzialmente seleziona e preserva materiale altrui, mosso da esigenze di varia natura – politica, sociale, antropologica, culturale nonché di identità e memoria – per poi congiungere i dati in modo del tutto personale.
Si potrebbe parlare, pertanto, di invented archives, intesi come “siti dediti alla raccolta e alla messa a disposizione di documenti sparsi in vari archivi reali” (O’Malley & Rosenzweig, 1997) provenienti dai contesti più disparati e assemblati secondo criteri propri. Attraverso il processo di selezione, memorizzazione e congiunzione personale del materiale, l’individuo-utente preserva così una postura attiva, critica e creativa all’interno dell’infosfera contemporanea: in tal senso, ogni dato può divenire così “(…) un tassello della nostra mappa personale di orientamento in una foresta di simboli dove si sovrappongono e si mescolano segni vuoti e segni pieni, segni morti e segni vivi, segni insignificanti e segni significanti, segni devianti e segni orientanti” (Balzola & Rosa, 2019, p. 126).
Un esempio di antiarchivio è il libro Chamberlain and The Beautiful Llama and 101 More Juxtapositions (1940) nel quale il fotoreporter, autore e regista Stefan Lorant (1901-1997) ha accostato di volta in volta, nelle pagine affiancate del volume, due differenti fotografie legate da una forte similitudine formale, pescate da un cumulo di immagini raccolte nel corso della sua carriera. “L’intero processo è nato senza troppe considerazioni”, ha ricordato Lorant (1940, p. 7) nell’introduzione al libro, parlando piuttosto di una semplice intuizione: dopo aver scovato un’assonanza nell’aspetto e nell’espressione tra il viso dell’imprenditore statunitense John Davison Rockefeller e quello di una contadina dell’epoca (fig. 1), aveva deciso di accostare le due immagini al fine di ridimensionare il valore sociale dei due. A tal proposito ha affermato: “Intendevamo ridimensionare. Volevamo usare questa semplice tecnica per mostrare quanto sia stupida la pomposità, quanto sia sciocca la presunzione” (Lorant, 1940, pp. 9-10); la volontà era, pertanto, quella di de-gerarchizzare i soggetti presentati, la cui eguaglianza dinanzi alla natura immensa emergeva sin dal momento in cui Lorant pescava i contenuti da un cumulo di immagini riversate a terra, confusione che lasciava emergere un generale appiattimento semantico e, al contempo, la maggiore visualizzazione garantita ad alcune personalità, delle quali si intendeva accrescere il potere mediatico e spettacolare. Così il viso dell’allora Primo Ministro del Regno Unito Neville Chamberlain poteva essere accostato a quello simile di un lama (fig. 2), il viso di un ricco esattore all’immagine di una pera matura (fig. 3). L’antiarchivio di Lorant si dimostra, pertanto, un dispositivo di de-concentrazione informazionale e mediatica volta a risvegliare le menti dallo stato di anestetizzazione già proliferante al suo tempo, prima dell’affermarsi di un’imponente realtà spettacolare.
Bibliografia
BALZOLA, A., & ROSA, P. (2019). L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica (2. ed.). Milano: Feltrinelli Editore.
HAN, B-C. (2015). Nello sciame. Visioni del digitale. (F. Buongiorno, Trad.). Roma: Nottetempo.
LORANT, S. (1940). Chamberlain and The Beautiful Llama and 101 More Juxtapositions. London: Hulton Press Ltd.
O’MALLEY, M., & ROSENZWEIG, R. (1997, 1 giugno). Brave New World or Blind Alley? American History on the World Wide Web. Journal of American History, 84.1.
PEPPERELL, R. (2006). Manifesto del postumano. Capire come il mondo cambia è cambiare il mondo. Kainós 6. http://www.kainos.it/numero6/emergenze/emergenze-pepperell-it.html