di Cristina Sabato
“Io sono convinto che non diventiamo creativi, ma che disimpariamo ad esserlo. O piuttosto ci insegnano a non esserlo. Dunque perché è così?”
Ken Robinson
Haiku fotografico di Cristina Sabato
Possiamo intendere le relazioni che ogni essere umano intreccia con sé stesso, con i suoi simili e con l’ambiente come l’espressione di un processo creativo, considerando la creatività come elemento fondante dell’esistenza umana. Considerare l’espressione umana come asservimento alla tecnica è una concezione erronea, oltremodo riduttiva. La tecnica è il punto di arrivo di un processo creativo polisensoriale che vede la partecipazione attiva di tutto il nostro corpo: pensiamo il mondo in tutti i modi nei quali lo percepiamo, sarebbe quindi impossibile credere che i nostri occhi, le nostre orecchie, le nostre mani, il nostro corpo intero siano esclusi dalla comunicazione col mondo, dall’espressione creativa. Eppure, se osserviamo il nostro sistema educativo, possiamo renderci conto di un’evidente contraddizione: la mente e il corpo vengono percepiti come elementi separati e tra di loro non comunicanti. I modelli prediletti dal sistema scolastico corrente sono di stampo logico/razionale e umanistico, con un conseguente appiattimento della soggettività, dell’unicità. La creatività, l’entusiasmo per la ricerca, l’esplorazione sono così scomparsi. Ma non possiamo considerare l’educazione come unica “colpevole”, anche la famiglia ad esempio gioca un ruolo fondamentale nel riconoscimento della soggettività, e connessa ad essa anche il nostro ambiente sociale, il luogo in cui trascorriamo la nostra vita, l’ambiente che ci circonda. La nostra vita individuale, l’intrecciare intimi rapporti con persone o oggetti durevoli nel tempo, che definiscono il nostro modo di relazionarci in un determinato contesto, si può definire abitare. L’abitare in un determinato ambiente urbano può avere un forte impatto emotivo sull’individuo e costituire una delle prime forme di discriminazione e isolamento sociale. Se ci soffermiamo sull’origine del termine periferia, scopriremo che le sue radici derivano dal latino peripherīa, ovvero circonferenza, identificando così la parte più esterna e marginale di una città o di un territorio, spesso in contrapposizione con un centro. Le periferie, così concepite, risultano essere aree svantaggiate sia dal punto di vista urbanistico e funzionale, che dal punto di vista socio-economico: il tema del vivere la periferia diviene dunque fortemente connesso al tema dell’abitare. Se proviamo a figurarci cosa per noi rappresenti la periferia cittadina molto probabilmente immagineremo una serie di edifici spogli, grigi, disposti rigidamente a scacchiera, con uno schema uguale e ricorrente. Immaginando la casa come luogo in cui la persona può esprimere in modo compiuto sé stesso, non intesa solo come riparo, ma come formazione della persona nella famiglia come primo gruppo sociale, possiamo riassumere che ad un ambiente spoglio e deturpato corrisponda un assopimento della creatività, dell’empatia. Per l’architetto viennese Hundertwasser, gli esseri umani hanno tre pelli: epidermide, abbigliamento e casa. Le case sono parte integrante della natura e perciò devono crescere, trasformarsi silenziosamente tramite l’aiuto dei loro abitanti. Creando un’architettura che fosse specchio e descrizione della natura, Hundertwasser abolisce la linea retta, non conforme ad essa, lasciando spazio a motivi a spirale, forme fluide e morbide, dove i colori diventano espressione del proprio sentire interiore, vicini all’ottica del sogno, delle emozioni e della sensibilità. Con l’espressione diritto della finestra, l’architetto esprimeva il diritto per degli abitanti della casa di modificare la stessa, la sua facciata, sigillando un rapporto indissolubile tra la creazione come espressione della condizione umana, e la casa intesa come processo naturale. Nasce così l’Hundertwasserhaus, un complesso di case popolari costruite nel 1986 a Vienna, dove tutto sembra spingerci a credere alla realtà come ad un gioco. Pensiamo il mondo in tutti i modi in cui lo percepiamo e in questo complesso architettonico anche i piedi trovano il loro modo di esprimersi: i pavimenti, i muri, le scale sono tutte forme irregolari, evitando il susseguirsi di superfici piane, riscoprendo così un contatto con la natura nelle sue forme irregolari. Non a caso, nell’ambito della psicologia dello sviluppo, tra le tecniche proiettive che si utilizzano con i bambini esiste il disegno della casa. Come possiamo dunque immaginare di preservare il pensiero creativo se la nostra dimora non è espressione dello stesso? Come possiamo, dunque, restare artisti se ci siamo dimenticati che la vita è un gioco e tutto quello che ci circonda dovrebbe essere espressione del nostro pensiero creativo? Concludo prendendo in prestito le parole con cui Hundertwasser descrisse le nostre periferie, le nostre case:
“Da quando ci sono urbanisti indottrinati e architetti standardizzati, le nostre case sono malate. Non si ammalano, sono già concepite e costruite come case malate. Tolleriamo migliaia di questi edifici, privi di sentimento ed emozioni […]. Danno l’illusione della funzionalità. Sono talmente deprimenti che si ammalano sia gli abitanti sia i passanti.”