Dialogo tra Tiziana Casapietra e Simonetta Fadda su un progetto di riqualificazione di un’area prospiciente un complesso di case popolari, in fase di realizzazione a Savona
di Simonetta Fadda
Due anni fa ho ricevuto una richiesta particolare da un committente sui generis, la Caritas di Savona. Mi si chiedeva di realizzare un’opera per un piccolo spazio pubblico, in una zona di Savona esclusa dai percorsi cittadini ordinari che potrebbe essere definita in modo generico come marginale e marginalizzata.
La mia opera, però, non avrebbe dovuto essere un semplice intervento fine a se stesso, ma avrebbe dovuto in qualche modo far nascere negli abitanti una nuova appartenenza nei confronti del luogo, connotata da una rinnovata solidarietà e, soprattutto, felicità.
L’idea dell’inserimento di un’opera d’arte in quel particolare spazio pubblico faceva parte di un progetto sociale più ampio, volto a creare una rete di ascolto e sostegno per gli abitanti di quelle case popolari, tutte persone sofferenti di diverse forme di disagio, non ultima l’estrema povertà.
In sintesi, la mia opera avrebbe dovuto suggellare la definitiva uscita dalla pandemia e dalle sue ricadute negative sul piano psicologico e sociale, promuovendo forme di relazione improntate alla gentilezza e al rispetto reciproco.
Una bella sfida. Soprattutto, un’enorme responsabilità.
Così è nato il progetto Il mondo sotto casa, che mi ha visto operare in un modo apparentemente distante dalle forme per me più usuali, con incursioni nei territori dell’architettura e della botanica. Questa è una prima riflessione sulle tematiche messe in gioco dal progetto, alla luce delle proposte di filosofe come Judith Butler e di analisti come Markus Fisher.
Simonetta Fadda
TC: Nel 2021 la Caritas mi chiese di individuare un artista da coinvolgere in un progetto di riqualificazione di un’area di edilizia residenziale pubblica a Savona, in una zona centrale e periferica a un tempo. Dovendosi relazionare con un luogo problematico sul piano sociale e abitativo, l’artista avrebbe dovuto dimostrare una forte sensibilità verso le delicate dinamiche di quella realtà, così ho ritenuto che tu potessi essere l’artista giusta. Cosa hai pensato di fare per rispondere a questa proposta?
SF: Mi era stato chiesto di concentrarmi sul muro che delimita la lunghezza del passaggio pubblico posto sul retro di quelle case popolari. La mia idea è stata di cancellare il muro trasformandolo in terreno di coltura, come si fa da anni nella bioedilizia. Ho scelto di utilizzare solo specie di erbe autoctone. Valorizzare le erbacce, normalmente cacciate via da orti e giardini, per me era anche un gesto concreto di accoglienza e rispetto. Il mio progetto prevedeva anche sedute per la sosta, aiuole di piante aromatiche, un’area cani. L’ho chiamato Il mondo sotto casa. Se l’abitabilità di quel cortile usato come discarica a cielo aperto fosse migliorata, quel luogo sarebbe potuto diventare un giardino dove fermarsi per un momento di distensione e per incontrare gli altri, qualcosa di cui prendersi cura e a cui attingere per prendersi cura di sé.
TC: È difficile fare convergere esigenze sociali e arte. Il problema è che, fuori dal suo mondo, l’arte è spesso confusa con una vaga ma rassicurante idea di “bello”, facile e proprio per questo capace di mettere d’accordo il grande pubblico. Nel confronto con il sociale, l’artista rischia di annacquare il proprio lavoro. Cosa ne pensi?
SF: Fin dall’inizio sono stata costretta a dei compromessi. Per esempio, sembrava che i fondi non sarebbero stati sufficienti per ricoprire di erbe tutto il muro, così sono stati aggiunti dei pannelli tra gli spazi verdi. Io ho potuto solo adattarmi, ma con questa modifica il mio progetto si è snaturato. Nella mia idea, il mio intervento sarebbe dovuto passare quasi inosservato, per riuscire davvero a cancellare quel muro. La sua conversione in un bosco immaginario avrebbe dovuto essere realizzata senza soluzioni di continuità, ma ora le parti verdi sono diventate delle mere aiuole verticali, inframezzate da superfici che replicano l’idea stessa di muro come barriera.
TC: Del resto è anche salutare per l’artista confrontarsi con altri mondi in grado di sollecitare riflessioni diverse che, però, comportano altrettanti rischi. In riferimento al “bello” cui abbiamo accennato, il primo rischio è che il committente e l’utenza si aspettino sempre dall’artista interventi di abbellimento.
SF: Questo problema è centrale. Quando ho accettato la proposta della Caritas, sapevo che ci sarebbe stata una grande sintonia sul piano etico, ma non ero altrettanto sicura che per i miei committenti la corrispondenza tra etica ed estetica, insieme all’esigenza di restare rigorosamente all’altezza della ricerca artistica più attuale, fossero una priorità come lo sono per me. Anche se da parte della Caritas c’era una piena adesione al mio progetto, temevo che sottotraccia ci fosse anche il desiderio inespresso di un intervento più riconoscibile come arte dai più. La presenza dei pannelli che hanno alterato il progetto fa presagire che in futuro quello spazio possa essere occupato da operazioni grafico-pittoriche, guidate da intenzioni ornamentali opposte a quelle che mi hanno portato a progettare l’intervento “vegetale”.
TC: Vedo anche un altro rischio e cioè che l’utenza senta l’intervento dell’artista come un’operazione calata dall’alto e che, in quanto tale, finisca col rifiutarlo. Tu, per esempio, mi hai parlato dell’idea di dare voce alle resistenze degli abitanti verso i cambiamenti introdotti in questo luogo. Del resto, il lavoro dell’arte consiste proprio nell’inserirsi nelle crepe delle contraddizioni, specie quelle che caratterizzano situazioni di questo tipo. Da un lato gli abitanti si sentono vittime della loro condizione sociale, dall’altro hanno paura di uscirne, perché uscirne può essere più inquietante che restarci.
SF: L’ostilità degli abitanti è legata al fastidio di essere stati messi improvvisamente sotto i riflettori. Non è il mio intervento in sé a disturbare, ma il fatto che la zona sta iniziando a essere molto più frequentata, grazie ad alcune iniziative della Caritas alle quali il mio progetto ha solo dato l’avvio. Era un luogo senza regole, ora lo sarà molto meno. Il vero problema nasce dal fatto che lì sono concentrate diverse forme di disagio che si sono sedimentate sia in abitudini protettive di chiusura verso l’altro, sia in comportamenti che rasentano l’illegalità. Tuttavia, mi sono sorti dei dubbi: mi chiedo se modificare l’aspetto di un luogo pretendendo di poter modificare anche chi ci abita non sia, invece, una mancanza di rispetto. Penso a tutto il dibattito sull’“esportazione della democrazia” e trovo molte analogie.
Immagine in evidenza: Samanta Seferi, Rendering per IL MONDO SOTTO CASA, Laboratorio didattico con Simonetta Fadda, novembre 2021