di Angelo D’Orsi
Nel cuore politico dei democratici italiani (in realtà, possiamo dire tranquillamente europei) il posto d’onore è occupato dalla Resistenza, ossia dalla forma più alta, in pensiero e in azioni, comprese le azioni armate, del rifiuto del fascismo; è questa la ragione di fondo che anche nel centro del revisionismo, vi sia precisamente quella stagione di lotta, che di Paese in Paese ha datazione diversa, e che per l’Italia si colloca, essenzialmente, nel biennio ’43-45. Possiamo affermare che tra i bersagli favoriti del revisionismo, vera e propria ideologia politica indirizzata a «revisionare», ossia in sostanza scardinare ad uno ad uno i fondamenti stessi della democrazia in Italia e fuori, c’è la Resistenza, letta nei termini di una mera “guerra civile” (in parte equivocando in buona o mala fede il titolo del libro di Claudio Pavone del 1991, che, con i molti meriti di un lavoro pluridecennale, ha avuto il torto di sdoganare quella espressione, forse con leggerezza), con un’equa spartizione di torti e di ragioni, confondendo il piano della moralità degli individui con quello della moralità delle cause per cui essi si sono battuti.
Lo stesso ragionamento è sovente stato proposto in relazione ad un’altra “guerra civile”: quella tra camicie nere e esponenti del movimento operaio e contadino nel 1919-‘22. Due “opposti estremismi”, entrambi giudicati negativamente: ma il primo, ossia lo squadrismo, in fondo ha impedito al bolscevismo di salire al potere, il che sarebbe stato pessima cosa per il Paese; dunque il fascismo in fondo merita gratitudine, almeno per quanto riguarda i suoi inizi e i suoi primi svolgimenti. Esattamente come ha sostenuto Ernst Nolte, in riferimento all’intero Continente, parlando di “guerra civile europea” nel 1987, presentando il nazionalsocialismo come una risposta al bolscevismo, dunque attribuendo a Hitler i meriti di aver preservato l’Europa dalla Falce e Martello, rovesciando i termini della questione, ossia la stessa verità storica, in quanto, come tutta la storiografia seria ha certificato, è innanzi tutto è grazie all’Unione Sovietica che si è fermata l’avanzata della Svastica nel Continente (e non soltanto).
I “revisionisti”, con un uso strumentale soprattutto metodologicamente scorretto di fonti, con prese di posizione meramente ideologiche, e sempre aggiungendo l’invettiva contro la “vulgata antifascista”, pretendono di spartire “equamente” torti e ragioni, in nome di una “pacificazione” nella quale perseguitati e persecutori, eroi e traditori, vittime e carnefici, spie e patrioti autentici siano riassunti in un’unica lapide, magari con la scritta “morti per la patria”. O, peggio ancora, vorrebbero, riprendendo una discutibile tesi di Renzo De Felice (nell’ultimo volume, in ben tre tomi, della sua monumentale biografia del “duce”, apparsi tra il 1990 e il 1997, l’ultimo postumo, essendo mancato l’autore nel 1996), foriera di gravi conseguenze, enfatizzano la dimensione e il significato della cosiddetta “zona grigia”: gli italiani che non si schierarono, quelli che rimasero a guardare, quella parte del Paese che non fu né con i repubblichini né con i partigiani, gli uni e gli altri, in fondo, indicati come degli esagitati che turbavano il quieto scorrere della vita della grande maggioranza degli italiani e delle italiane. Di nuovo una equiparazione, tra chi combatteva per la liberazione del Paese (come minimo dallo straniero occupante e dai fascisti, ma nella Resistenza le istanze di liberazione sociale da parte dei ceti subalterni furono presenti e qua e là forti) e coloro che vi si opponevano, in nome di un grave e penoso status quo. Nella versione proposta da De Felice, che poi ha fatto strada grazie non soltanto agli storici professionali, compresi gli allievi dell’autore, quanto ai divulgatori, ai giornalisti, agli intrattenitori televisivi v’era anche la svalutazione del ruolo militare del partigianato; ossia, l’idea che alla liberazione d’Italia le formazioni armate delle varie organizzazioni diedero un contributo irrilevante, e che addirittura essa fu sovente controproducente, generando reazioni violente negli occupanti e nei loro alleati-succubi repubblichini: la liberazione, insomma, giunse dagli Alleati, ossia le truppe anglo-americane e la Resistenza è stata in sostanza una sorta di apologetica del nulla, una costruzione meramente ideologica realizzata sostanzialmente dal PCI per autolegittimarsi – in quanto forza di gran lunga dominante nelle formazioni partigiane – come partito fondatore della Repubblica democratica.
Certo il XXV Aprile è risuonato per molto tempo come una ricorrenza affidata alla retorica autoreferenziale: i dolorosi e insieme gloriosi avvenimenti del biennio ‘43-45 sono stati più celebrati che studiati, e comunque dati per acquisiti. Poi gli anni Sessanta, nel loro procedere verso la stagione delle lotte studentesche e operaie di fine decennio, comportò anche in questo campo un profondo rinnovamento degli studi, un approfondimento delle ricerche e anche uno sguardo politico nuovo sulla Resistenza, più fresco, meno autoreferenziale, critico, dal quale quella stagione di lotta drammatica, però, non usciva ridimensionata, ma valorizzata nel suo significato politico, morale e anche quello squisitamente militare.
La stessa ANPI, da associazione meramente reducistica, intenta a spolverare le lapidi ogni anno, nel mese di aprile, ha subito una trasformazione interessante, obbligatoria, venendo meno i partigiani, per ragioni banalmente anagrafiche, ed è oggi un centro di riflessione, un motore volto non alla mera conservazione della memoria, ma, con tutti i suoi limiti, una forza a difesa politico-culturale dei valori dell’antifascismo e della democrazia. E oggi, dopo decenni di lavoro scientifico e culturale, il “pacchetto Resistenza”, emerge più ricco, anche se più contraddittorio di prima, come un insieme di valori, sofferenze, opzioni politiche, culture, ideologie, che ha rappresentato “l’altra Italia”, con tutte le differenze, politiche, geografiche e umane del caso (bisognerebbe parlare di Resistenze al plurale, secondo qualche studioso, ma io credo che vada conservata la dicitura unitaria). Esiste una profonda moralità in seno a quelle lotte, e non è un caso che Claudio Pavone usasse la parola nel sottotitolo (che avrebbe dovuto essere il titolo, ma subì un ribaltamento per volontà un po’ furbesca dell’editore: Saggio sulla moralità nella Resistenza, e il titolo divenne Una guerra civile).
Da quel libro e da molti altri lavori portati avanti nei decenni seguenti, emergeva una pluralità di luoghi, di varietà territoriali, non solo geografiche in senso stretto, ma socio-economiche, antropologiche, politiche della guerra partigiana. Tutte tessere di un mosaico composito eppure provvisto di un significato che, nell’insieme, appariva scritto una volta per sempre; la Resistenza era stata la fonte cui si era abbeverata l’Assemblea Costituente per redigere la nostra Costituzione, e travasarne in essa i valori e gli empiti.
Invece accadde che a dispetto della nuova stagione di studi, nell’Italia berlusconiana, a partire proprio dal libro di Pavone, e ovviamente a prescindere dai suoi intendimenti (Pavone era stato un militante del Partito d’Azione, incarcerato, e resistente attivo a Roma), prese il via un’altra “nuova stagione”, ma di segno contrario: una stagione di mera denigrazione, che non esitò alla violazione di qualsivoglia regola del metodo storico, non arretrò neppure davanti alla menzogna, pur di raggiungere l’obiettivo, che non era evidentemente conoscitivo ma politico: colpire l’antifascismo, e soprattutto, il comunismo. Si era nella stagione del dopo-Muro e anche grazie all’incredibile, improvvido harakiri compiuto dalla dirigenza del PCI, guidata da Achille Occhetto, il bersaglio divenne proprio il comunismo italiano che si volle, capziosamente, confondere con quello sovietico dei tempi più bui. Si rispolverarono i testi dei cosiddetti “nostalgici”, ossia i fascisti non pentiti transitati alla Repubblica (e che provavano nostalgia di quel tempo…), e si giunse al caso rappresentato da Giampaolo Pansa, fenomeno mediatico, commerciale e ideologico, punto d’arrivo di questo percorso, nel quale si arrivava alla pura e semplice criminalizzazione dei partigiani, specialmente, come accennato, comunisti. Si giungeva, così, dal revisionismo a quella modalità che io stesso denominai all’epoca (2003, anno d’uscita del primo libro di Pansa), “rovescismo”, e che ormai è entrato nel lessico politico-storiografico.
In fondo mentre gli studiosi continuavano e hanno continuato finora a portare avanti il proprio lavoro, sulla Resistenza, una barriera invalicabile è rimasta quella dei combattenti, anche se ormai ridotti a poche decine di unità, con uno stillicidio di morti, che ci intristiscono, ma a cui non si può porre rimedio. Per fortuna i combattenti di ieri, coloro che nella Resistenza si sono battuti, spesso immolati, o comunque vi hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, giovinezza, hanno affidato alla carta importanti memorie, o hanno consegnato alle generazioni giovani preziose testimonianze orali. Le più significative sono quelle raccolte nelle Lettere dei condannati a morte. Alla luce di questo straordinario documento, nessun “revisionismo”, nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di liberazione, di creazione di una nuova Italia, evento e processo che tentò di ribaltare tutto quanto aveva rappresentato il fascismo. Irredimibile il nostro debito verso quegli eroi perlopiù sconosciuti (per caso, per scelta, per necessità), i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le sezioni dell’ANPI mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del XXV Aprile.
Ad esse gettiamo un’occhiata distratta e rapida, specie quando quei fiori sono freschi: la prima cosa che colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale, casalinga, pettinatrice, sarta… Il secondo elemento che balza all’occhio è l’età: ad essere «barbaramente trucidati» – come spesso si esprime l’aulico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 13-14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte. Ebbene le Lettere dei condannati a morte, sia su scala europea, sia su scala italiana, ci offrono un campione straordinario per intensità, ma assolutamente rappresentativo di quegli eroi sconosciuti. Difficile commentare i testi scritti sovente in situazioni di fortuna, su fogli precari, su pareti di celle…; righe vergate in situazione di restrizione fisica («scrivo male perché ho le manette»); addirittura ve n’è uno inciso su di una pagnotta di pane!
Difficile commentare le parole modeste e nobili, talora di altissimo valore morale, di questi semplici nostri connazionali (uso il termine sia riferendomi all’Italia sia alla più grande nazione Europa): si prova un vago senso di colpa, per essere vivi, per non aver provato le ristrettezze della prigionia, le sofferenze della tortura, i morsi della fame, le umiliazioni sofferte da parte degli scherni dei tiranni. Ma soprattutto si avverte una sensazione di incommensurabile distanza tra i nostri dolori, le nostre pene, i nostri “problemi” e i loro. Sarebbe sbagliato dire che non c’è paura in quei testi, anche se non viene dichiarata, anzi i morituri fanno di tutto per rassicurare i loro familiari, i destinatari delle ultime parole; ma non c’è rabbia, piuttosto c’è voglia di lasciare un messaggio di incoraggiamento e di speranza. Così come non c’è rassegnazione, ma, se mai, accettazione consapevole del proprio destino. C’è la coscienza di aver fatto qualcosa nell’interesse generale, ma senza iattanza. C’è, pur nella spontanea enfasi (che a torto ci potrebbe sembrare retorica) di questi testi preziosi, una dignità, una serietà e una ritrosia che vorrei definire socratiche. Ma i Pagliani, i Garelli, i Manfredi, gli Andreoni, i Rossi, i Moriani… (tutti nomi che non dicono nulla a nessuno di noi, nomi che non sono passati alla storia, eppure sono la storia) non hanno alcuna velleità didascalica, non pretendono di insegnarci nulla: nulla al di là del loro esempio, un esempio così semplice e grandioso che ne siamo, anche a distanza di oltre mezzo secolo, annichilati.
E non ci rimane che davanti a questi testi chiuderci nel silenzio e nella meditazione: chissà che leggendoli e rileggendoli, non diventiamo migliori e raccogliamo il testimone per le nuove battaglie che nel nome della Resistenza – all’ingiustizia, alla prepotenza, alle persecuzioni di cui l’universo mondo fornisce copiosi esempi quotidiani – dobbiamo essere in grado di affrontare, se vogliamo essere, pure in minima parte, di quegli “eroi”, volontari o involontari che fossero.
Certo, non possiamo dimenticare, quel che scrive Cesare Pavese: “ogni guerra è una guerra civile”, e che i morti sono ugualmente degni di pietà; tuttavia va ribadito che è stata la guerra partigiana a dare forma, voce e respiro ad un Paese che vent’anni di dittatura sembravano aver definitivamente snervato e sfibrato. Dobbiamo ribadirlo, in una perdurante e direi crescente “perdita” di memoria, di ignoranza della storia e del perverso fascino dell’indifferenza.
Oggi, nell’emergere del volto oscuro della globalizzazione, delle pseudo risposte nazionalistiche, etnicistiche, o in chiave religiosa (di religioni al servizio del potere, di religioni che si sono fatte potere esse stesse), ribadire il significato, il valore e l’importanza della Resistenza, ossia della lotta antifascista, implica una ribadita necessità di fare i conti con il fascismo, non soltanto guardando al passato, ma cercando nel presente le sue nuove, inquietanti espressioni, fatte di intolleranza, razzismo, esaltazione dell’ignoranza, ripudio di concetti come uguaglianza, solidarietà, rispetto delle diversità. Significa identificare i nuovi candidati al ruolo involontario della vittima, e quelli che invece cercano ad ogni costo di interpretare la parte del carnefice. Significa schierarsi, in Italia, in Europa, nel mondo dalla parte delle sterminate masse degli schiacciati dai grandi potentati economici, le masse assoggettate a regimi di neo-schiavismo, ridotte all’ignoranza e al silenzio, annichilate dal finanz-capitalismo, e instupidite dalle ideologie e dalle culture neoliberiste, o delle tante forme di un nuovo colonialismo o di imperialismo. Nel Mediterraneo, dove si consuma una tragedia senza fine; nell’Europa continentale in cui si riaffaccia un pericoloso autoritarismo; in America Latina, che vede il ritorno del golpe in varia forma; in Africa, dove gli europei hanno innescato una catena di morte infinita; in Medio Oriente, sconvolto dalle guerre americane; nella Palestina dove si assiste alla più clamorosa delle ingiustizie su scala mondiale, ai danni di un intero popolo (quello palestinese) o nello Yemen devastato dalle bombe saudite prodotte in Italia; e in molte, innumerevoli plaghe della Terra, dove l’ingiustizia è legge, oggi occorre reclamare una nuova Resistenza, ossia un’azione, diffusa e consapevole, contro la tirannia, contro il sopruso, contro la sopraffazione, quale che siano le loro etichette.
È questo l’imperativo che la lotta condotta contro nazismo e fascismo nel Novecento ci affida. E tale lotta parte innanzitutto dalla conoscenza, contro ogni tentativo di “memoricidio” o ogni falsificazione della storia, pratiche, purtroppo, che trovano espressione talvolta anche in istituzioni come il Parlamento dell’Unione Europea, con quella famigerata risoluzione del 19 settembre 2019, in cui si equipara nazifascismo e comunismo, mettendo entrambi sul banco degli imputati come responsabili della Guerra mondiale e dei 40 milioni di cadaveri che essa ha procurato, circa 20-25 dei quali, sono russi, ossia di quel popolo, di quel Paese, di quello Stato che ha svolto il ruolo determinante nella disfatta dell’hitlerismo e del mussolinismo.
Oggi “fare resistenza”, nell’Italia e nell’Europa che aspirino ad essere degne di chi, nel passato, ha combattuto, a prezzo spesso della propria vita, per la libertà e la giustizia, richiede innanzitutto un’azione culturale, volta a difendere le ragioni perenni dell’antifascismo e a rivendicare il diritto alla storia, ossia alla sua conoscenza da parte dei popoli, e degli individui. Se è vero che il sonno della ragione genera mostri, l’ignoranza della storia produce ingiustizie.
Note:
Il testo e le immagini delle opere sono stati pubblicati nel catalogo della mostra Arte come Resistenza. Dalla Resistenza storica alle resistenze attuali, a cura di Ilaria Borgo, Galleria civica d’arte contemporanea “Filippo Scroppo” di Torre Pellice, 2020.