di Sara Mazzetti
Mettere la tecnologia al servizio della collettività, opponendosi al potere e alla segretezza, è un obiettivo che pone le proprie radici nella storia e nella cultura dell’attivismo hacker degli ultimi trent’anni. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, l’eredità politica dei movimenti controculturali underground è stata raccolta da attivisti che si muovono sul terreno digitale dei computer e della Rete seguendo lo slogan “l’informazione vuole essere libera”. Negli ultimi vent’anni il movimento dell’hacktivism si è sviluppato e diffuso dando vita a una pluralità di incontri ed esperienze, alcune delle quali hanno avuto risonanza internazionale: dalle agenzie di stampa indipendenti come Indymedia, ai collettivi distribuiti come Anonymous, fino ai Partiti Pirata sorti in diversi paesi europei. L’hacktivism è parte di una visione politica radicale che pone al centro della propria ideologia l’informazione come bene pubblico e collettivo; possiamo descriverlo come l’insieme di pratiche sociali e comunicative, valori e stili di vita, in aperto conflitto con i valori del pensiero dominante ovvero: individualismo, profitto, proprietà privata, autorità, delega, passività sociale. Queste pratiche sono comuni all’attitudine che l’hacking, all’origine dell’hacktivism, ha nei confronti delle macchine informatiche, che presuppone lo studio dei computer per migliorarne il funzionamento, attraverso la cooperazione e il libero scambio di informazioni tra i programmatori, oltre alla condivisione del sapere che ne risulta per offrire a tutti la possibilità di accesso illimitato a queste conoscenze.
Wikileaks nasce proprio su questo substrato culturale e politico a partire dall’esperienza personale del suo fondatore Julian Assange, personalità sicuramente controversa ma anche mediaticamente carismatica. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ben prima della nascita di Wikileaks, le scorribande di Assange tra i computer del Dipartimento della Difesa americano gli procurano la prima notorietà (con lo pseudonimo di Mendax) sulla scena hacker internazionale e le prime attenzioni da parte della giustizia (perquisizioni, processi, condanne). In seguito Assange si concentra sui risvolti politici dell’hacking fino a promuovere Wikileaks, di cui è attualmente caporedattore.
La protezione dei dati personali è semplicemente l’altra faccia della “liberazione” dei dati pubblici. Nel caso di Wikileaks questo significa in modo specifico proteggere le identità di chi rivela informazioni riservate, allo scopo di evitare vendette private o ritorsioni istituzionali qualora tali identità venissero scoperte. Una piattaforma tecnologica sicura per la gestione delle fughe di notizie è quindi di importanza vitale per il progetto, ed è resa possibile grazie all’uso sistematico di sofisticate tecniche di crittografia. Le applicazioni pratiche della crittografia a chiave pubblica hanno alimentato le istanze politiche radicali di chi rifiuta allo Stato e ancora di più alle aziende il ruolo di controllori sulle vite dei privati cittadini, dando origine al movimento cypherpunk (gruppi di attivisti libertari che sostengono l’uso intensivo della crittografia informatica come parte di un percorso di cambiamento sociale e politico, attuato ad esempio violando archivi riservati per rendere pubbliche alcune verità scomode), non a caso ben noto allo stesso Assange.
Ma cosa succede quando questa battaglia per la libertà in Rete incontra i meccanismi di potere dettati dai nuovi padroni digitali? Nell’era del controllo che attraversiamo oggi (dove si è già concretizzata l’idea del panottico digitale) in cui tutto dev’essere trasparente, l’anonimato viene etichettato pericoloso perché sfugge al controllo stesso.
La severità delle misure detentive a cui sono sottoposti personalità come Julian Assange, Edward Snowden e alcuni dei loro informatori (che secondo molti osservatori internazionali rasentano la tortura, ne è un esempio il caso di Bradley Manning), ci offrono un quadro piuttosto chiaro circa la centralità strategica della gestione delle informazioni in un mondo complesso e interconnesso come quello attuale. Allo stesso tempo anche il potere politico si trova sottoposto a processi fortemente ambivalenti, tra spinte verso il cambiamento e mantenimento del suo ruolo tradizionale. La stessa Hillary Clinton, segretario di stato americano, che nel gennaio 2010 in un memorabile discorso elogiava la funzione di Internet come “samizdat dei nostri giorni”,
condannando la censura elettronica e i muri virtuali eretti da paesi come Cina o Iran, nel dicembre dello stesso anno ha dipinto la diffusione dei dispacci diplomatici USA da parte di Wikileaks come un “attacco alla comunità internazionale” che deve essere represso duramente.
La trasparenza diventa quindi un dispositivo di controllo sociale. La trasparenza totale che tanto affascina gli utenti della Rete, e che è spesso considerata più importante della libertà, non riguarda però chi è responsabile di quei servizi, che si sottrae invece a qualsiasi confronto tanto che la maggior parte degli utenti stessi non saprebbero dare con precisione un volto definito a questi padroni: la trasparenza vale per la massa, non per i sistemi di potere. I sostenitori della trasparenza radicale sbandierano l’estinzione della sfera personale in favore della pubblica onestà, ritenendo che una maggiore visibilità ci renda persone migliori; credono inoltre che una maggiore trasparenza renda automaticamente la società più tollerante: essere differenti equivale ad un’anomalia del sistema, forse sintomo di corruzione morale. Questa vigilanza costante operata dai nuovi padroni fa girare molto denaro grazie al complesso delle informazioni che vi ruotano attorno, che regge a sua volta l’industria dei meta-dati. I nuovi padroni digitali costruiscono le infrastrutture rendendo così possibile dirigere in maniera eterogenea le masse, instillando – come dice Ippolita – desideri indotti e stimolando a fornire sempre più informazioni: siamo noi che rendiamo possibile la personalizzazione di massa. D’altronde le piattaforme social sono state create con l’obiettivo del profitto, non con l’idea di creare uno spazio globale di dibattito culturale. Il prezzo della libertà digitale è la fine della privacy.
In una società complessa quanto quella in cui viviamo oggi, in cui si sono enormemente ampliati i domini delle scelte individuali e collettive, le possibilità di visioni e universi simbolici alternativi, le opportunità di credere e perseguire valori e stili di vita diversi; in una società come questa, credere che i cittadini vengano “tenuti all’oscuro” da qualche cospirazione planetaria che mira a nascondere le informazioni rappresenta naturalmente una ingenuità grossolana (per quanto molto diffusa). L’importanza del fenomeno Wikileaks sta nell’aver reso evidente la complessità dell’intreccio tra attori e snodi diversi di un sistema sociale planetario: un militare insoddisfatto, una guerra, centinaia di migliaia di documenti, una rete globale elettronica di diffusione delle informazioni, la cultura degli hacker, i grossi editori, i giornalisti d’assalto, i governi nazionali, l’opinione pubblica. In tutto questo non può che emergere il sovraccarico informativo cui sono sottoposti gli individui, quotidianamente inondati da notizie vere, false e verosimili provenienti dalle più disparate fonti, e il costante bisogno di figure a cui rivolgersi per fronteggiare tale alluvione. Intermediari che possono di volta in volta assumere le sembianze di un leader carismatico, di un software per l’analisi automatica dei dati, di una community online o di un solenne e rassicurante giornale.
Bibliografia
Ippolita, La Rete è libera e democratica. Falso!, Laterza, Bari, 2019
A. di Corinto, T. Tozzi, Hacktivism. La libertà nelle maglie della Rete, Manifestolibri, Roma, 2002
F. Gros, Disobbedire, Einaudi, Torino, 2019