di Marco Ercolani
con le fotografie di Chiara Romanini
Esistono nodi irrisolti e dolenti, nella vita e nell’opera di un artista, che non invitano a spiegare o a capire ma ad
indagare ancora, come se certe domande esigessero sempre, dal mondo dei vivi, una risposta. A partire da tracce reali e indizi verosimili – frammenti di lettere, aneddoti, cronache, taccuini – è un gioco perturbante, per lo scrittore apocrifo, reinventare, re-immaginare, entrare di nuovo in quelle vite e in quelle opere: trasformare, correggere, risognare il passato. Chiedere a certi destini, consegnati alle cronache della storia, di tornare incompiuti, di esibirsi sul palcoscenico di un racconto per svelare ancora il loro segreto. Pur restando tale, quel segreto ci parlerà di come, fin dall’inizio, l’arte non sia stata che un lungo combattimento per la ricerca di una verità poetica, intima e assoluta, da conquistare attraverso le meraviglie della finzione. In questi racconti “impossibili”, dove un sogno di Leonardo convive con un’intervista a Giacometti, una riflessione di Robert Walser con una lettera di Fedor Dostoevskij, un ricordo di Viviane Maier con un frammento di Diane Arbus, succedono cose impreviste: un dettaglio si evidenzia, un paesaggio si sfuoca, un sogno si compie, una voce si rivela, una visione si forma. La condizione paradossale dell’autore apocrifo è creare un testo impossibile che, mentre viene scritto, diventa possibile dall’interno di una scrittura-ombra che va alla caccia dei suoi fantasmi e naviga nel mondo delle ipotesi e delle congetture, dei commenti e delle fantasie, del vero e del falso, in una terra instabile e metamorfica che si impone come la sola necessaria e reale. Avendo l’ambizione di trovare, nelle opere che reinventa dal passato, le diverse maschere di se stesso, crea dei “falsi d’anima”. Certe angosce e visioni del nostro tempo possono esercitare un feedback critico su quel passato. La possibilità di questo feedback sovverte la bloomiana “angoscia dell’influenza” esercitando, al contrario, una “gioia dell’influenza” che fa della letteratura non un repertorio di performances interrotte dalla morte ma un’enciclopedia “in divenire” di vite, destini e opere sempre viventi e cariche di potenzialità ulteriori. Se è vero, come scrive il poeta greco Giorgio Seferis, che “le responsabilità cominciano dai sogni”, allora ognuno deve assumere dentro di sé, come regola fondamentale, la ricerca dei modi e delle forme in cui chiarirsi un sogno che non è soltanto suo.
È evidente la natura doppia e insidiosa di una narrazione che induce a “mettersi al posto dell’altro”, per rendergli omaggio e farlo rivivere, ma anche e contemporaneamente per espropriarne la parola, per annullarlo sostituendosi a lui. Si tratta di un ambiguo rubare-possedere la parola, di un resistere in una zona di confine dove chi dice io comunque mente, sia perché non è l’autore a cui viene attribuito il testo sia perché chi si sostituisce all’autore prescelto comunque realizza un falso. In questa doppia falsità, rifranti da maschere e specchi, si sviluppano come un sogno di verità le fantasie che agitano la mente dello scrittore. Non c’è nulla di più fecondo di questo parlare obliquo, non sapendo mai da dove arrivi e dove giunga la verità. Non c’è nulla di più sincero che parlare attraverso continue rifrazioni, che colgono la verità esattamente per quello che è: il riflesso di un sogno che forse non era neppure il nostro sogno.
Il compito dello
scrittore apocrifo
ha qualcosa
in comune con
l’esercizio della
caccia: scrivendo,
stana delle
prede nascoste.
Si mette in agguato. Sorveglia. Poi capta delle vibrazioni sonore, delle particolari risonanze. Allora si mette in posizione e aspetta la preda: passa, guizza, e la afferra; la tiene tra le mani, ha il tempo di osservarla per un attimo, di intuire una vaga somiglianza fra il suo occhio atterrito e il proprio, e poi la lascia libera. È solo in questo momento che può scrivere del suo incontro con essa, esattamente come un critico parlerebbe di un’opera di Dante o di Boccaccio. La verità è solo nell’attimo magico di una risonanza che genera un effetto: la scrittura è il ralenti di questo incontro, la sempre inadeguata, forsennata, a tratti impotente descrizione di questo incontro dove l’io è l’altro e l’altro è l’io. Le verità che ammira sono immagini viste in sogno e soprassalti del dormiveglia. Aritmie della percezione. Nei paesi mesopotamici, per esorcizzare il potere diabolico del sogno, il sognatore ne incide il contenuto su tavolette d’argilla e lo immerge nell’acqua: così il sogno, insieme all’argilla, può dissolversi. Della potenza assoluta del sogno sono attenti ascoltatori gli indigeni del Gabon, che gli conferiscono valore di testimonianza giuridica, di responso oracolare. Ma, al di là di responsi, credenze o formule, nessuna opera corrisponde a qualcosa di autentico se non al sogno del suo stesso autore. Le strategie dell’illusione e del sogno raggiungono effetti di verità che nessuna flebile e monocorde realtà potrebbe raccontarci. “La biblioteca ideale a cui tendo è quella che gravita verso il fuori, verso i libri ‘apocrifi’ nel senso etimologico della parola, cioè i libri ‘nascosti’. La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare” (I. Calvino). Ritrovare o inventare dei racconti “falsi” che sembrino “veri” non significa imitare tracce passate ma reinventare tracce anteriori che non sono mai esistite: creare un movimento di fuga da un io monodico e insonoro a un io multiplo, immerso in arcipelaghi di risonanze. L’io diventa una goccia d’acqua che batte contro una superficie – il testo – e da lì si espande in migliaia di gocce, ognuna delle quali, nella sua differenza, conserva la stessa identità della goccia-madre.
L’arte è il paradossale tentativo di cura dalle distorsioni e dalle ingiustizie subìte nel corso del tempo e della storia da uomini e artisti: un’arte destinata a sopravvivere come fantastico desiderio di giustizia contro i soprusi del potere. Il testo apocrifo è la guarigione immaginaria da una ferita inguaribile. La cura di un’assenza attraverso una presenza fantastica. Come per i sacchi cuciti di Burri, qualcosa di lacerato va ricomposto. La guarigione, in questo caso, non è la cura razionale che sopprime la malattia ma una benefica follia di libertà, uno sciogliere, à rebours, cose e pensieri dall’eccesso di repressione e di violenza che li ha fatti ammalare.
Ogni opera autentica è costituzionalmente incompleta, perché invasa da tutti i libri possibili che l’autore ha pensato e sognato senza scriverli: porta in sé la sua incompiutezza e il suo fallimento, anche se ogni testo che la compone, considerato autonomamente, può sembrare compatto e riuscito. È come una voce che ne chiama un’altra, in un corale collettivo non riducibile al silenzio, un “concerto” di parole che continuano oggi e domani a parlare da sole, servendosi di noi come di strumenti più o meno adeguati. La scrittura apocrifa è l’atto di lucidità del raccogliere il testimone in una gara di staffetta in cui scorgiamo appena l’atleta precedente e ancora non vediamo quello successivo. Ma la corsa è in atto, e non si fa mai da soli. Siamo in tanti. Una squadra di vivi e di morti. La scrittura è un enigma, un fruscio di parole, e basta. Quando riesco, riflettendo gli autori che amo, a trovare il fruscio giusto, convivendo con loro e creando io stesso le loro/mie parole, vivo un senso di raggiunta familiarità, come se davvero nessuno fosse mai morto, e tutti scrivessimo ancora, senza un nome preciso, senza un’identità assoluta. Chissà: è forse questa la magia che desidero. Una comunità di artisti feriti, immuni dal tempo.
Ogni opera reale è flusso interminabile, infinito bisbigliare di
voci. Il libro è la fortuita emersione di una di queste voci alla coscienza della scrittura, un approdo momentaneo, un’isola instabile che ci permette di vedere, da una particolare inquadratura, il “libro impossibile” che continuiamo a scrivere.