di Roberto Castello; Fotografie di Alessandra Moretti
Signore e signori buona sera, grazie 1000 di essere qui con noi, grazie 1000 di avere scelto di passare questa serata in nostra compagnia. Questo spettacolo parte dal fatto che, per tutta una serie di ragioni personali e professionali, da alcuni anni continuo ad imbattermi in questioni che riguardano l’Africa. Ho avuto così modo di accorgermi che di Africa si parla pochissimo, ma soprattutto che dell’Africa si sa pochissimo. Chi appartiene alla mia generazione e a quelle immediatamente successive, ad esempio, non può non aver mai sentito parlare del Biafra, eppure pochi sanno che il Biafra è in Nigeria e che la maggior parte dei nigeriani che arrivano in Italia viene proprio da lì, che sono cioè i nipoti di quei bambini scheletrici con la pancia gonfia che sono diventati l’emblema della fame nel mondo. Ma quel che è peggio è che pochi sanno dire dove esattamente si trovi la Nigeria, cioè dove si colloca sulla cartina geografica. Eppure la Nigeria è un paese enorme, con circa 200.000.000 di abitanti, una popolazione che è quasi la metà di tutta quella dell’Unione Europea, che è una delle principali economie africane e ha una vita culturale sorprendente di cui si potrebbe parlare per ore: premi Nobel per la letteratura, scrittori pubblicati e tradotti in tutto il mondo – anche in italiano –, una tradizione musicale che non ha bisogno di presentazioni – basti pensare a Fela Kuti – e, non da ultimo, che in Nigeria, ormai da molti anni, viene realizzato il più alto numero di produzioni cinematografiche al mondo, più di India e Stati Uniti! E questo è solo uno dei 54 paesi africani. Ma parlare di Africa è interessante, molto interessante, perché parlando di Africa in qualche modo parliamo di noi stessi. È un po’ come specchiarsi e vedere la nostra immagine riflessa attraverso il rapporto che abbiamo con il resto del mondo. A questo proposito la prima musica che avete ascoltato, quella sulla quale abbiamo creato la coreografia che avete appena visto, ha una storia davvero particolare che vale la pena raccontare. Un giovane studente di composizione, sudafricano, bianco – ma attivamente anti apartheid – 13 anni prima che Nelson Mandela diventasse presidente – insomma in pieno regime razzista – ha un’idea davvero brillante: quella di introdurre con intenti provocatori e sovversivi, la pratica del ready made in ambito musicale. Cosa fa? Prende un brano musicale per mbira della tradizione Shona – gli Shona sono un popolo che vive fra Zimbabwe e Mozambico… mentre la mbira è uno strumento fatto di lamelle di metallo fissate su un pezzo di legno che si suona con pollici e indici, insomma una cosa da negri… – Bene, lui prende questo brano, normalmente eseguito da due mbire, e lo trascrive pari pari, senza cambiare assolutamente nulla, per due clavicembali: gli strumenti barocchi per eccellenza.
Il brano diventa presto molto famoso nel mondo della musica colta internazionale – ovviamente nella versione per clavicembali – per la sua oggettiva bellezza e per la sua straordinaria sintonia col gusto dell’epoca – si parla dei primi anni 80, quando a dominare la scena erano il minimalismo di Philip Glass e di Steve Reich. Come non apprezzare la raffinata e maliziosa intelligenza di questa operazione dagli intenti chiaramente antirazzisti? Qualche anno dopo però alcuni etnomusicologi tedeschi e americani, anche loro bianchi, e anche loro anti apartheid, contestano il nostro giovane compositore accusandolo di avere indebitamente guadagnato fama e danaro non facendo altro che apporre la sua firma su un brano che in realtà appartiene al popolo Shona. Come non essere d’accordo? Lo fu anche il giovane compositore, che decise di ritirare la sua firma dal brano, che oggi tutti possono liberamente ascoltare su Youtube. Ma in tutto questo, la cosa davvero curiosa è che cercando notizie su questa diatriba fra progressisti illuminati, non siamo riusciti a trovare traccia della voce di un solo nero africano. Insomma, anche una nobile discussione fra persone animate dalle migliori intenzioni come questa ha finito per passare sopra alle teste dei diretti interessati esattamente come avvenne nel 1884 a Berlino – cioè a oltre 3000 km dalle coste africane – quando i nazionalisti europei, i bisnonni o i trisavoli degli odierni sovranisti, prima ancora di avere finito di esplorarla tutta, si sono spartiti l’Africa, proprio tutta l’Africa fino all’ultimo centimetro, inventandosi dal nulla confini che mai prima erano esistiti. Ovviamente senza interpellare i diretti interessati. Per questo, quando abbiamo dovuto decidere come chiamare questo spettacolo, abbiamo scelto di chiamarlo Mbira, come il titolo del brano per due clavicembali e come lo strumento sul quale veniva tradizionalmente suonato, perché a ben guardare la storia di questo brano è davvero emblematica. Alla base di tutto infatti c’è che quella musica, che era sempre stata tramandata oralmente, per la prima volta viene scritta, e così improvvisamente smette di cambiare ed arricchirsi ad ogni nuova esecuzione. Grazie a questo passaggio il brano, pur senza cambiare di una virgola, da irrilevante pratica primitiva si trasforma d’incanto in quello che nella tradizione occidentale deve per forza essere un’opera d’arte: una cosa con una forma eterna ed immutabile ed un autore, come La Gioconda di Leonardo o la Divina Commedia di Dante. Ma quello che è ancora più importante è che, grazie all’intervento magico della scrittura, una pratica che era sempre stata gratuita inizia miracolosamente a generare proventi da copyright. Insomma, questo intricato contenzioso morale fra progressisti illuminati non avrebbe mai avuto modo di esistere se non fossero intervenute due cose di cui gli africani, prima del nostro arrivo, legittimamente, non avevano mai sentito il bisogno: la scrittura e il denaro.