Breve cronistoria autentica di una sconfitta operaia poco
e mal raccontata dai media
di Angelo Caforio
con le fotografie di Giò Palazzo
Un’esposizione fotografica del reporter Giò Palazzo sulla lunga lotta dei 35 giorni alla Fiat Mirafiori a Torino nell’autunno del 1980, con immagini inedite in bianco e nero, ha caratterizzato una delle iniziative che hanno ricordato quegli avvenimenti in occasione del loro quarantennale (presso il Circolo Risorgimento Arci-Anpi, di Torino).
Istantanee intense e vitali di un’umanità resistente, di una comunità solidale che in ogni sua componente, a partire dalla parte più combattiva e cosciente, partecipa attivamente per impedire alla FIAT di licenziare 14mila operai. Immagini di grande intensità comunicativa che attraversano cortei operai partecipatissimi e
oceaniche manifestazioni ai comizi, e poi ancora momenti di vita vissuta del “popolo dei cancelli”, come furono definiti gli operai e le operaie che presidiarono i numerosi ingressi della fabbrica. Gli scatti, nel fissare volti, situazioni, gesti spontanei, mostrano anche un’umanità che nonostante l’asperità della lotta e il sacrificio di giorni e giorni di sciopero, non rinuncia a vivere anche istanti di spensierata allegria, nei cortei come nei momenti conviviali o nei balli e canti intorno ai fuochi notturni davanti ai cancelli. Le immagini di massa di migliaia di persone mostrano la capacità di attrazione e di mobilitazione degli operai metalmeccanici in quegli anni, e passando da una foto ad un’altra, portano a chiedersi come sia stato possibile passare da quella condizione di forza alla debolezza, alla fragilità e alla frammentazione del presente di chi lavora, fatto per la maggior parte di precarietà e isolamento.
La mostra ha offerto anche un’occasione di dibattito per una riflessione su quella stagione di lotte, sul protagonismo operaio di quegli anni e in particolare sull’epilogo di quello scontro che si concluse con la sconfitta dei lavoratori metalmeccanici. Il 3 settembre del 1980 in una riunione con i sindacati, per la prima volta, la Fiat comunica l’intenzione di procedere a diverse migliaia di licenziamenti, senza indicarne il numero. Pochi giorni dopo rompe il tavolo delle trattative e unilateralmente l’11 settembre del 1980 rende pubblica la decisione di voler procedere al licenziamento di 14.469 operai a decorrere dal 6 ottobre. Il 12 settembre inizia il braccio di ferro, la FLM, la federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici, e i delegati dei Consigli di Fabbrica, in risposta dichiarano lo sciopero articolato e giorno per giorno, in assemblee partecipatissime, decidono le forme di lotta che progressivamente passano dai cortei interni alle manifestazioni, fino al blocco totale delle fabbriche con il presidio dei cancelli per impedire l’entrata e l’uscita di merci e persone. Il 25 settembre la mobilitazione operaia, con lo sciopero generale dei metalmeccanici piemontesi a cui aderiscono molte categorie professionali e con adesioni nazionali allo sciopero altissime, raggiunge uno dei momenti più alti. La manifestazione a Torino vede in piazza 100.000 persone con una massiccia presenza di studenti, disoccupati, donne e giovani. Nel giro di pochi giorni succede di tutto, si passa dalla famosa visita di Enrico Berlinguer alla porta 5 della Fiat di Mirafiori, alla caduta del governo Cossiga-Craxi il 27 settembre. I segretari generali di CGIL, CISL e UIL, Lama, Carniti e Benvenuto, in seguito alla caduta del governo, revocano lo sciopero generale nazionale di tutte le categorie indetto per il 2 ottobre. La Fiat coglie il momento, annuncia la sospensione dei licenziamenti fino a dicembre e propone la cassa integrazione per 23.000 operai, una mossa vincente, che apre delle crepe sul fronte politico e sindacale. La FLM vuole che la cassa integrazione sia almeno a rotazione, una modalità che permette una turnazione fra tutti i lavoratori colpiti dal provvedimento per impedire liste di proscrizione e una discriminazione tra chi resta in fabbrica e chi è definitivamente fuori. Il PCI e i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL sono propensi ad accettare la proposta della Fiat, alla luce dal fatto che non ci sono più i licenziamenti. Le divergenti valutazioni fra i vertici sindacali e i partiti della sinistra indeboliscono il fronte di lotta. Gli operai, i quadri combattivi e i delegati dei Consigli di Fabbrica rifiutano la proposta Fiat e decidono nelle assemblee di continuare lo sciopero e il blocco dei cancelli perché la considerano uno stratagemma per fermare lo sciopero, ritenendo la cassa integrazione a zero ore una forma di licenziamento mascherato. La reazione operaia coglie di sorpresa il PCI e i sindacati confederali. La Fiat procede nella sua strategia, con l’intenzione di minare la resistenza operaia spedisce le lettere di cassa integrazione a zero ore, senza rotazione, a 23.000 operai, per dividere i lavoratori fra chi non è colpito dal provvedimento, e quindi può ritenersi più al sicuro, e chi ormai è da considerare fuori. Contemporaneamente denuncia alla magistratura il blocco dei cancelli, spostando lo scontro sindacale sul piano dell’ordine pubblico. Il 9 ottobre Cesare Romiti, l’amministratore delegato della Fiat, autorizza un’azione di forza per saggiare la tenuta della lotta operaia e fa mandare 200 tra capi e crumiri a sfondare di notte il presidio al cancello 31 della meccanica 2 di Mirafiori. Gli operai del picchetto, presi di sorpresa, vengono sopraffatti e l’operazione della Fiat riesce, i crumiri entrano in fabbrica. Il giorno dopo, il 10 ottobre, lo sciopero generale nazionale da tanto atteso dai metalmeccanici, vede un grande risultato con un’adesione di 10 milioni di lavoratori. Giorgio Benvenuto, a nome della segreteria CGIL, CISL e UIL parla agli operai di Torino davanti alla Fiat Mirafiori e auto-criticandosi dice: “La Fiat ci ha ingannati… e non accetteremo la cassa integrazione che ha proposto”. E poi con enfasi: “Qualcuno mi ha chiesto come finirà questa lotta e io ho risposto o la Fiat molla o molla la Fiat”. Immediatamente dopo, la dirigenza Fiat tenta la sua ultima carta, organizza direttamente capetti, quadri intermedi, impiegati, anche proprietari di fabbrichette dell’indotto Fiat, commercianti e similari per manifestare contro lo sciopero operaio e per la fine del blocco dei cancelli. È questo l’episodio che segna il momento di svolta nel lungo braccio di ferro tra lavoratori e padronato FIAT: la cosiddetta “marcia dei quarantamila” narrata dai giornali mainstream (le fonti della Questura già generose parlano di 12
mila), le maggiori testate giornalistiche nazionali definiscono così il corteo dei quadri aziendali, dei capi e degli impiegati FIAT che schierandosi contro lo sciopero, sfilano il 14 ottobre per il centro di Torino, chiedendo la ripresa del lavoro. Un atto di forza inusuale per le relazioni sindacali fino a quel momento, che si contrappone apertamente e frontalmente allo sciopero degli operai che presidiano gli ingressi agli stabilimenti. Le confederazioni sindacali CGIL, CISL e UIL, al tavolo delle trattative a Roma nella notte tra il 14 e il 15 ottobre, prendendo a pretesto la “marcia dei capi”, di fronte all’eventualità di un inasprimento del conflitto sul piano politico, sociale e sindacale e preoccupate che la situazione possa sfuggire di mano e trasformarsi in disordini di piazza, decidono di chiudere la vertenza accettando tutte le condizioni poste dalla FIAT, senza nessuna reale garanzia per i cassaintegrati di un rientro in fabbrica. È lo stesso Romiti ad ammettere, in un’intervista di alcuni anni dopo, che in quella circostanza gli si avvicinò il Segretario Generale della CGIL Luciano Lama che gli disse: “Dobbiamo chiudere subito, scrivete voi il testo dell’accordo noi firmeremo”.
L’accordo, tra varie vicende, viene respinto dai Consigli di Fabbrica e dalla maggioranza degli operai nelle assemblee, ma le Confederazioni Sindacali, inaspettatamente per molti operai, non rispettano il voto della propria base. Gli elenchi degli operai in cassa integrazione si trasformano subito in liste di proscrizione che espellono dalla fabbrica migliaia e migliaia di operai, e insieme ad essi la parte più combattiva, le avanguardie operaie più coscienti, i delegati sindacali più coerenti e preparati, le donne, gli invalidi i giovani neo assunti, che non rientreranno mai più in Fiat. Gli operai si sentono traditi e abbandonati, solo chi vuole credere alle favole, come
la leadership sindacale, può pensare che dopo 35 giorni di sciopero e di dura lotta, gli operai possano votare a favore dell’accordo. Dopo, come sempre, esclusa la resistenza dei soli cassintegrati autorganizzati, resta solo rimozione e silenzio. I licenziati erano stati la spina dorsale di tutto il movimento operaio, erano coloro che dal ‘69 in avanti avevano tentato di portare in fabbrica più democrazia, avevano conquistato diritti fino ad allora negati, avevano imposto rispetto e dato dignità alla condizione operaia e di tutto il mondo del lavoro. Avevano saputo raccogliere intorno a sé il consenso, non solo degli studenti, ma di ampi strati di società, promuovendo il cambiamento e le grandi trasformazioni sociali in Italia dalla fine degli anni Sessanta a tutti gli anni Settanta del Novecento. I metalmeccanici erano considerati la “punta di diamante” di tutto il movimento operaio, quella sconfitta segnò un prima e un dopo nel percorso di emancipazione del mondo del lavoro. La “punta di diamante” era stata frantumata e le sue schegge disperse non si sono ancora ricomposte.
Le fotografie realizzate da Giò Palazzo sono state oggetto della mostra La lotta infinita. Quarant'anni fa i 35 giorni della Fiat, tenutasi presso il Circolo Risorgimento Arci-Anpi dinTorino, in occasione del quarantennale delle lotte dei 35 giorni dell'autunno 1980 alla Fiat Mirafiori di Torino.