di Ilaria Perna
Una fotografia non ci lascia scampo. La osserviamo e in un attimo la carichiamo di significati. Se la fotografia si trova accompagnata da una didascalia, da una notizia, i significati aumentano. Possiamo essere certi che quello che stiamo osservando sia ciò che ci chiedono di credere che sia?
Le foto mi affascinano da sempre. La loro costruzione, coloro che le creano ed il modo in cui vengono lette dall’osservatore è stato per me oggetto di studio. Per la tesi triennale ho sviluppato un’ampia ricerca riguardo la documentazione della realtà attraverso la fotografia, ho ricercato l’origine del fotogiornalismo ed ho tentato di analizzarne le derive contemporanee. Tale approfondimento mi è stato suggerito dall’esperienza che ho compiuto assieme al gruppo di fotoreporter professionisti MeMo (Manu Brabo, Fabio Bucciarelli, Diego Ibarra Sanchez, Guillem Valle e José Colon) che all’epoca avevano sede a Torino, città in cui studio ancora attualmente.
La storia della fotografia descrive le vicende che portarono alla realizzazione di uno strumento capace di registrare il mondo circostante grazie all’effetto della luce ed evidenzia i problemi relativi al concetto di osservazione istantanea.
Fin dalle origini la fotografia si legò alla necessità dell’uomo moderno di tenersi aggiornato sui fatti del mondo che lo circonda: attraverso questo mezzo, era infatti possibile documentare la realtà. La fotografia mostra, riporta, non modifica. Da qui, prende le basi la diffusa convinzione che la fotografia non menta mai. Soprattutto nella prima metà dell’Ottocento, non era pensabile che un mezzo inventato per riportare su di un supporto sensibile una osservazione istantanea potesse mentire agli occhi di coloro che ne ammiravano i prodotti.
Nel 2020 dobbiamo però chiederci se i documenti visivi abbiano sempre una loro integrità. Per diversi motivi che vedremo, la risposta è negativa. Sappiamo che la fotografia oggi ha invaso l’esistenza dell’uomo, è divenuta un elemento familiare della vita e nessuno si interroga più sul suo valore. Ogni spettatore è abituato a riconoscere e a ritrovare nell’immagine fotografica elementi che possa identificare facilmente e accetta l’informazione da questa riportata senza sognarsi di discuterne l’autenticità.
Il fotografo professionista percorre il mondo del suo tempo accompagnato dalla sua macchina fotografica, captando le scene che si presentano ai suoi occhi e che gli sembrano avere un interesse per il loro contenuto e a cui egli, in quanto uomo della sua epoca, senza esserne probabilmente sempre del tutto cosciente, dà un valore particolare. Egli cerca di fissare un istante, sa quel che vuole fare e conosce le ragioni della sua azione.
Il luogo può essere rivisitato, i protagonisti possono essere rivisti, ma il momento non si ritrova. Nella scelta delle immagini trasparirebbe l’importanza di colui che, in un istante preciso, ha premuto il pulsante da un certo punto di vista e ha registrato ciò che esiste. Una parte del mondo è stata colta sotto una certa angolazione e con una certa focalizzazione, ed impressa sopra una superficie sensibile. Egli non è coinvolto nell’azione, ma funge da spettatore privilegiato con una macchina fotografica che sa utilizzare.
Sulla base dell’esperienza che ho vissuto con i MeMo, posso dire che il caso specifico del fotogiornalista nell’età moderna e contemporanea ci impone un’altra problematica relativa alla richiesta continua di informazioni da presentare regolarmente al pubblico, data dalla sua professione di documentatore di avvenimenti d’attualità. Se la produzione degli avvenimenti è indipendente dal giornalista, il loro consumo da parte del lettore del quotidiano o del periodico rimane costante. Di qui la ricerca rinnovata di immagini fotografiche nuove, a colpi di flash sopra un’attualità che non li meriterebbe e che acquisisce, in questo modo, un’importanza anomala.
Sembra che la foto sia una testimone del suo tempo non solo per quello che essa rappresenta, ma soprattutto per il fatto che essa esista. La documentazione degli avvenimenti, che essi si dimostrino importanti o meno, è divenuta eccessiva negli ultimi decenni.
Di fronte alla crescente sfiducia verso l’informazione mainstream e alle potenzialità della comunicazione multipolare e orizzontale della rete, ha preso forma l’utopia di una comunicazione dal basso, senza mediatori, democratica perché gestita direttamente dal popolo: si definisce la nuova figura del prosumer, consumatore e produttore allo stesso tempo, che nasconde però altri rischi di manipolazione e disinformazione. Quanto queste nuove forme di produzione e di diffusione delle immagini creeranno nuovi spazi di informazione, di conoscenza, di denuncia? Quanto sapranno produrre informazioni e narrazioni diverse rispetto a quelle proposte dai grandi organi di stampa? E quanto invece sommergeranno le fotografie di professionisti capaci sotto il peso di una massa indistinta di dati che non si saprà più come catalogare e decifrare?
Nella documentazione del reale diversi fattori concorrono acciocché essa non si dimostri in definitiva totalmente obiettiva, in quanto, per sua natura, la creazione di un’immagine è frutto di molteplici elementi diversi e dominanti.
Una parte fondamentale del concetto di creazione è l’invenzione. Quando ci poniamo davanti ad una fotografia, così come davanti ad un dipinto, dovremmo riconoscere, anzitutto, la possibilità che ha avuto colui che le ha create. L’invenzione non è ovviamente una minaccia, ma se consideriamo la fotografia e l’arte finalizzate alla documentazione del reale, degli avvenimenti di cronaca con lo scopo unico di trasmettere informazioni ad un pubblico esteso, allora l’invenzione rappresenta una problematica non indifferente.
Giungiamo infine a chiederci: cos’è la verità? Umberto Eco nel suo libro Kant e l’ornitorinco, parla dell’impossibilità o incertezza di verità assolute. Il dubbio, nel nostro caso riguardo l’autenticità delle immagini, contiene un elogio della verità, ma di una verità che ha sempre e di nuovo da essere esaminata e riscoperta. Così, l’etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità dogmatica, che è quella che vuol fissare le cose una volta per tutte e impedire o squalificare quella cruciale domanda: “sarà davvero vero?”. Allo stesso modo, però, penso che se una verità assoluta non possa esistere, sicuramente può esserci una sua più vicina approssimazione, e per poterla raggiungere ed esserne soddisfatti, è doveroso che gli operatori dell’informazione, fotogiornalisti, agenzie e redazioni nel nostro caso, rispettino quelle poche, ma fondamentali, regole di comportamento che si trovano alla base del rispetto verso il pubblico e l’inalienabile diritto ad essere informati. Di qui l’importanza di codici deontologici e pratiche di comportamento condivise e rispettate da tutti. Vivere oggi nella società digitalizzata, società dell’immagine per eccellenza, ci mette a maggior ragione in una condizione di serrata convivenza con la fotografia, e di auspicabile e reciproco rispetto. Il cittadino è cosciente di poter essere vittima di un’informazione distorta e sa che oggi è molto più facile intervenire sulle fotografie per modificarne il significato, ma è anche consapevole di poter essere, come citizen journalist o prosumer, protagonista del circuito mediatico e informativo. Le regole deontologiche allora devono essere estese a tutti, professionisti e non, perché tutti sono ora potenzialmente in grado di comunicare con il linguaggio universale della fotografia.
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