di Daniela Floriduz
Avvicinarsi alla sfera del visivo attraverso la voce? Sfida non impossibile. Gli attori o i cantanti fanno riferimento all’espressione “i colori della voce” per intendere la necessità di discostarsi da un timbro monotono e piatto, al fine di imprimere al canto o alle parole una suggestione evocativa, riconducibile per l’appunto ai colori. Secondo uno dei più famosi doppiatori italiani, Ciro Imparato, il giallo sarebbe il colore e la voce della simpatia, il verde della fiducia, il blu dell’autorevolezza, il rosso, ovviamente, della passione (La tua voce può cambiarti la vita, Sperling & Kupfer Editore, Milano 2015). Questo legame tra colore e voce, che le neuroscienze stanno ancora indagando, rappresenta una delle vie d’accesso alla sinestesia, quella produttiva contaminazione tra i sensi che, favorendo lo sconfinamento dai rispettivi ambiti di competenza, ne attiva il reciproco arricchimento. La sinestesia non è soltanto un fenomeno artistico (Rimbaud, Baudelaire, Skrjabin) o addirittura patologico. Non è un fatto arbitrario o soggettivo, nella misura in cui ogni atto di rappresentazione del mondo rimane sempre e comunque un’interpretazione, una costruzione di tipo culturale. Come scrive Marco Mazzeo: “la stimolazione di un senso fa scattare automaticamente una percezione in una seconda modalità senza che questa sia stata stimolata direttamente.” (Storia naturale della sinestesia, Quodlibet, Macerata, 2005, p. 266). Insomma, gli esseri umani sarebbero per natura sinestetici, senonché il predominio della vista, che ingloba il 90% delle percezioni quotidiane, lascia gli altri sensi silenti, inutilizzati e apatici. Con il grave risultato, ad esempio, che sui ciechi, fino a Diderot, ha gravato il pregiudizio della minorazione mentale, dell’ineducabilità, perché solo la vista darebbe la comprensione chiara e distinta delle idee. Tornando alla voce: la mancanza di un senso importante come la vista fa scattare quasi immediatamente meccanismi legati alla sinestesia; pertanto, poiché in natura non esiste un timbro di voce umana uguale all’altro, ogni voce spalanca un mondo di ipotesi, che poi è interessante e arricchente confrontare sia attraverso un tessuto intersoggettivo, vale a dire con altre ipotesi, sia con la concretezza dei dati di realtà. “La persona che ha appena parlato avrà i capelli biondi o mori?” “Sarà alta o bassa?” “Di che corporatura sarà?” “È giovane o avanti con gli anni?” ”I suoi lineamenti sono armoniosi o spigolosi?” La personalità, anche fisicamente, si palesa attraverso la prosodia vocale, attraverso le pause e i silenzi, lo spazio dei respiri e la qualità della tonalità timbrica. Il tatto, che pure rappresenta il senso principale nell’esplorazione del mondo da parte dei non vedenti, cede qui il passo all’udito per vari motivi. Innanzitutto quest’ultimo è più discreto e meno invasivo, anche se l’atto di origliare viene solitamente associato al passatempo delle comari pettegole! Secondo un luogo comune, i ciechi hanno bisogno di tastare il volto delle persone per farsi un’idea dei lineamenti di coloro che incontrano per la prima volta. Nell’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia (L’Appello, Mondadori, Milano, 2020), il protagonista, l’insegnante cieco Omero, conosce i suoi alunni esplorandone tattilmente il volto. Ebbene: questa non è la norma. La voce rivela anche ciò che un volto non esprime, perché dice il non detto, nonostante provi talvolta a non farlo, perché è carica di sfumature e di striature, di ritorni e nascondigli, per chi abbia un orecchio e una sensibilità allenati, ovviamente. Inoltre, in tempi di pandemia, il tatto ha ritrovato la sua veste di tabù, non nella forma del sacro totemico descritta da Freud o da Mircea Eliade, bensì a causa delle necessità dovute al distanziamento sociale. La voce ha ripreso la scena, entrando nelle case attraverso i programmi per “incontrarsi da remoto”, espressione ossimorica dietro la quale si nasconde, quasi involontariamente, il bisogno di socialità che appartiene agli esseri umani. Per un vedente, però, in queste forme di incontro, è sempre stato molto difficile far risuonare questa voce senza attribuirle un volto: c’è sempre la necessità di attivare la telecamera, di inquadrare il viso correttamente, di trovarsi all’interno di una stanza adeguatamente illuminata, insomma, di soggiacere a tutti i dettami richiesti dalla dittatura del visivo. Si teme quasi che il suono della pura voce possa distrarre, disorientare, addirittura risuonare poco trasparente, come se si giocasse sporco, se ci fosse qualcosa da nascondere a telecamere spente. Probabilmente la voce intesa come significante può distogliere l’attenzione dal significato, ma questo è un pericolo insito in ogni forma di manifestazione sensoriale. Fin dai tempi di Parmenide, l’unica risorsa affidabile per l’umanità sta nel pensiero, non nei sensi, che risultano del tutto opinabili. Ci ritroviamo allora catapultati nuovamente a riflettere sul rapporto tra la voce e i suoi colori, su come accada che un aspetto prettamente visivo possa essere utilizzato per descrivere la voce e possa essere compreso attraverso la voce. Evidentemente entrambi – voce e colore – non sono un fatto naturale, ma culturale, convenzionale. Possiamo trovare dei parametri definitori per distinguere i colori chiari da quelli scuri; parallelamente possiamo discriminare con sicurezza i timbri vocali tra chiari e scuri. L’interpretazione e il valore emotivo dell’aspetto cromatico, in entrambi i casi, però, rimandano sempre ad un fatto culturale. Intreccio di significati, che sarà compito dell’ascoltatore provare a sbrogliare, magari attraverso il dialogo. Già, perché la voce è, per eccellenza, il medium del dialogo, letteralmente la parola che attraversa, che getta ponti laddove ci sono fiumi di incomunicabilità di tutti i tipi, naturali o artificiali, difficili o impossibili da attraversare. Si potrebbe dire: “il calore della voce” in luogo del deserto dell’esclusione e dell’indifferenza. Eccoci allora al significato del titolo: per abbattere i preconcetti è indispensabile conoscere, formarsi, osservare, guardare e non solo vedere. La voce sarà poi ricettiva rispetto alle suggestioni esplorative di un’esperienza carica di stimolazioni produttive, inclusive, aperte, dialoganti. Si tratta di una cura di sé che richiede tempo, per sfuggire alla quale ciascuno di noi trova mille pretesti, il più vero dei quali – e anche il più nascosto – è che lo scavo interiore fa paura, porterebbe a disseppellire delle certezze conformistiche di comodo, legate all’abitudine, che, anche se ci fanno tenere lo sguardo in una direzione sola, come accade ai prigionieri della caverna di Platone, ci rassicurano. Meglio dormire ricoperti dei propri pregiudizi e idoli piuttosto che ascoltare la voce di qualche rappresentazione che, pur provenendo dall’esterno, potrebbe rivelarci delle sezioni di noi stessi che è meglio tenere in ombra. Perciò viviamo nella società dell’immagine, ne abbiamo esasperato la forza fino al paradosso di renderla immateriale, virtuale. Non esiste polifonia, parliamo tutti all’unisono perché, inevitabilmente, guardando nella stessa direzione, diciamo tutti la stessa cosa. Come possiamo sprigionare la voce e con essa la parte più autentica di noi stessi? Quali spazi di espressione possono essere affidati alla voce intesa in modo non filtrato e passibile di essere accolta e raccolta dagli altri? I suggerimenti possono essere tanti, ammantati di esperienze significative, che restano e incidono. La lettura ad alta voce lascia tracce indelebili sia in coloro che la esercitano, sia nei destinatari, che associano la trama e la vita dei personaggi alla voce di quel particolare lettore: un’esperienza corale che, se vissuta dai tempi dell’infanzia, mette radici profonde nel tessuto esistenziale della persona. Anche la realizzazione di audioquadri attraverso valori cromatici legati alla voce, secondo i riferimenti al colore indicati all’inizio, può arricchire l’esperienza artistica ed estetica, così come le audiodescrizioni, quando non si limitino alla ricostruzione verbale del contenuto, ma siano il risultato di un confronto fra le suggestioni emotive richiamate dall’immagine. Il tutto può essere arricchito dal contributo proveniente da stimolazioni di carattere olfattivo o gustativo. Anche il mondo del teatro ha molto da insegnare in fatto di apertura all’altro e di comunicazione verbale e non verbale, dato che coinvolge la gestualità, la corporeità, le emozioni. Una voce che resta, disegna ricordi, incide immagini e scolpisce dettagli, se intendiamo l’immagine come rappresentazione, non solo visiva, non solo concettuale, ma prima uditiva, poi mentale. Una voce che abbatte i preconcetti e costruisce un noi che ci accomuna in un archivio fatto di memorie sonore che rimandano ad altrettante scene di vita, da vivere in tutti i sensi e con tutti i sensi. Proviamo ad ascoltare queste voci ad occhi chiusi, per fare epoché di ciò che non ci appartiene in quanto ci distoglie da noi stessi e non ci aiuta ad essere veri, ad essere vivi, quelle troppe voci di consumo, prestazione, competizione, omologazione che, se qualche volta ci permettono di cantare, ci inducono a farlo all’unisono e non in un coro. Per farlo bisogna avere il coraggio, ciascuno di noi, di studiare e cantare in modo approfondito e intenso la propria parte. Perché nel coro la diversità è necessaria.