L’opera di Rioji Ikeda e una proposta laboratoriale nell’epoca della datificazione
di Riccardo Conti
Chiedersi oggi cosa sia l’essere umano, è una domanda che rispetto al passato, si è arricchita di maggiore complessità e sfaccettature. Attraverso il progresso, l’umanità ha ampliato i propri orizzonti, soprattutto in campo scientifico e tecnologico, generando nuove possibilità da una parte ma anche nuove problematiche dall’altra. Attualmente, la definizione di umano si sta sempre più facendo problematica, a causa, in particolare, dell’ibridazione con l’artificiale. Già negli anni ’90, Donna Haraway ci ricordava come l’essere umano sia ormai “una chimera, un ibrido teorizzato e un fabbricato di macchina e organismo” (Haraway 1991). La condizione umana, infatti, si sta sempre più ibridando con quella artificiale, acquisendo connotati tipici delle macchine. Dall’altro canto, sempre più si finisce con l’attribuire connotati umani alle macchine, tanto da assistere, in taluni casi, alla caduta della differenziazione semiotica tra i due concetti. L’umano diviene sempre più artificio. L’artificio diviene sempre più umano. Per fare un esempio, basta osservare la nostra quotidianità. Tra i primi processi di smaterializzazione umana che avvengono ogni giorno nella nostra società, vi è la trasformazione dei nostri vissuti in dati. Dal momento in cui ogni giorno accediamo ai nostri dispositivi, questo processo ha inizio, con particolare evidenza nelle piattaforme social. La datificazione infatti, è quel processo tecnologico che trasforma i vari aspetti della vita sociale o della vita individuale in dati che vengono successivamente trasformati in informazioni dotate di nuove forme di valore, anche economico. La costruzione dei profili virtuali, che ci rende di per sé degli artefatti, delle proiezioni mai pienamente autentiche, è un processo di datificazione. Attraverso posts, stories, likes e reels contribuiamo alla mercificazione delle nostre esistenze. La condivisione delle proprie vite, sotto forma di contenuti, è barattata con dosi di dopamina che bene fanno stare il nostro narcisismo. Come ingranaggi di un sistema, datificandoci, diveniamo il carburante per le grandi aziende che tra consumismo e sorveglianza diffusa, generano importanti interessi economici grazie ai nostri dati. Dove tutto viene finalizzato al marketing, anche le nostre vite diventano esse stesse oggetto di produzione e consumo. Per quanto riguarda il mondo dell’arte, un artista interessante che negli ultimi anni ha esplorato il fenomeno dei dati e che merita un’analisi a riguardo, è sicuramente Ryoji Ikeda. Nato nel 1966 nella città di Gifu, è un artista visivo e compositore giapponese, considerato uno dei maggiori esponenti della computer music contemporanea. Le sue composizioni sono caratterizzate da campionamenti, frequenze e sonorità atonali, come stridii e distorsioni, ricavate da glitch, ossia gli errori prodotti dalle apparecchiature elettroniche. Nelle sue live performance, Ikeda si avvale di elaborati video, volti a ricreare delle esperienze immersive in grado di suggestionare l’osservatore o addirittura di indurlo in stati ipnotici. I suoi lavori sono stati eseguiti ed esposti in numerosi sedi in tutto il mondo. Alla Biennale di Venezia del 2019, per il padiglione giapponese, ha presentato l’opera Data-verse 1. L’installazione è la prima di una trilogia volta ad analizzare l’intera scala della natura, dal microscopico al macroscopico. L’opera, frutto di quindici anni di ricerca su dati provenienti da istituzioni scientifiche come CERN, NASA e Human Genome Project, immerge lo spettatore in un racconto visivo, composto di suoni e immagini ipnotiche (Tanni 2019). Ikeda, attraverso quest’opera traduce migliaia di dati in paesaggi visivi da esperire sotto diversi aspetti sensoriali.
Sulla base di questo lavoro in cui i dati divengono il materiale costituente dell’opera stessa, si colloca la proposta laboratoriale: “Quanto valgono i tuoi dati?” Pensato per un pubblico adulto, il laboratorio si prefigura in due fasi: una prima, in cui si svolge un’asta per un oggetto misterioso, ed una seconda in cui avviene un dibattito tra i partecipanti. L’attività, della durata complessiva di circa un’ora, si svolge dopo la visione dell’opera dell’artista giapponese. La prima fase si apre con i partecipanti riuniti in una stanza munita di file di sedie, direzionate al tavolo del battitore dell’asta. Egli, con l’oggetto misterioso posto dentro una scatola chiusa (con all’interno un finto peso), ha il compito di permettere di far soppesare la scatola ai partecipanti, come unico indizio possibile, e guidare lo svolgimento dell’asta. Quest’ultima si svolge attraverso l’utilizzo di gettoni “acquistabili” attraverso la vendita dei propri dati. I gettoni sono acquistabili per tutta la durata dell’asta e in base al valore del dato fornito, si ricevono più o meno gettoni, secondo un preziario definito. Ad esempio, fornire dati personali permette di ricevere un numero maggiore di gettoni rispetto ad un dato secondario come può essere il tempo di utilizzo del nostro smartphone. Non c’è un limite all’acquisto dei gettoni. La prima fase quindi vede le acquisizioni dei valori di scambio, lo svolgimento dell’asta e si conclude con la vendita dell’oggetto al miglior offerente, teoricamente colei o colui che ha fornito il maggior numero di dati o quelli ritenuti più sensibili. La seconda fase ha inizio con lo svelamento dell’oggetto dell’asta: piccoli fogli, contenenti definizioni e informazioni tratte da ricerche riguardanti la datificazione, il mercato dei dati, l’utilizzo dei dati oggi e la competizione, utilizzati come spunto per creare un dibattito tra i partecipanti che, in questa ultima parte di laboratorio, cambieranno la propria disposizione nella stanza e si confronteranno seduti in cerchio a terra. Il confronto ha lo scopo di sensibilizzare alla cultura del dato e di ragionare sulle dinamiche di mercificazione di questo. Costituito da una componente ludica esperienziale ed una di dialogo e confronto, il laboratorio si prefigge di porsi come un’esperienza utile ad approfondire sia le dinamiche sociali relative alla competizione e al rischio, sia di porsi come un mezzo informativo in grado di sensibilizzare sul tema del dato, contestualizzato nella società dello spettacolo (Debord 1967) in cui siamo immersi. L’obiettivo è quello di sviluppare una consapevolezza su ciò che significa oggi datificare le proprie vite attraverso dispositivi e social in particolare, sottolineando l’aspetto economico che queste operazioni implicano.A livello metodologico, il laboratorio attraverso la simulazione di un’asta, sfrutta la dimensione del gioco per rendersi partecipativo, ed in parte negativamente, disporre le persone su un piano competitivo. Questo aspetto, tuttavia, viene rovesciato nella seconda parte del laboratorio, dove cambiando la disposizione nello spazio, i partecipanti per mezzo del dialogo, si ritrovano ad auto-analizzare in maniera critica l’esperienza precedente. L’interazione diviene fulcro del processo educativo (Dewey 1935), inteso nel senso etimologico del termine, come “estrarre, tirar fuori” dalle personalità e dal vissuto esperienziale (Balzola 2017).
Bibliografia
D. J. Haraway (1991), Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli editore, 1995.
G. Debord (1967), La società dello spettacolo, Massari editore, 1967.
O. Brombin, F. Barbaro, M. Petriccione et al., ZonArte. Manuale di educazione all’arte contemporanea, Prinp editoria d’arte, 2017.
J. Dewey (1935), Esperienza e educazione, Raffaello Cortina editore, 2014.
V. Tanni, Un universo fatto di dati. Ryoji Ikeda alla Biennale di Venezia in Artribune, 14 maggio 2019, www.artribune.com/television/2019/05/video-ryoji-ikeda-biennale-di-venezia-data-verse/.