Il silenzio come strumento della violenza di genere, l’assenso come voce di una società sorda
di Valentina Zucca
Opera di Laura Avondoglio
“In Kafka tacciono le sirene.
Forse anche perché in lui la musica e il canto sono un’espressione, o almeno un pegno di salvezza.”
Walter Benjamin
Lo statuto della violenza di genere si fonda anche e soprattutto sul silenzio, quale impossibilità di comunicazione che essa presuppone: la violenza, infatti, non attende risposte e anzi le nega, recidendo ogni possibilità espressiva della donna e creando attorno a lei uno spazio vuoto, “acusticamente” isolato. Una violenza, dunque, che si insinua in ogni aspetto della quotidianità, assorbendo ogni attimo dell’esistenza di chi la subisce, ogni parola e pensiero, abitando il privato come un ospite insaziabile. Ed è proprio nel privato che si incardina, sotto un certo punto di vista, la condizione del silenzio nel suo senso deteriore: non già come quiete ricercata e rassicurante (del privato come casa), ma come privazione della parola e coercizione all’interno dello stesso spazio “intimo”. Non è un caso che proprio lo spazio abitativo si rappresenti come dimensione della femminilità sin dall’antichità e che, sin da allora, si costituisca come luogo dell’espressione del femminile. Luogo privato, sì, ma della pubblica possibilità di autorappresentarsi, distante da uno spazio pubblico storicamente e strutturalmente permeato dal maschile. Alla luce di un’interpretazione del pubblico e, dunque, del politico come modo d’espressione patriarcalmente caratterizzato, è importante ricordare la posizione assunta dai movimenti femministi negli anni ’70 a proposito di questo tema. Infatti, attraverso il grido e slogan “il personale è politico” questi intendevano sottolineare la necessità di inserire una prospettiva “femminile” nella politica, scardinando in tal modo le preesistenti modalità di discutere del pubblico. Ribaltando la condizione di relegamento della donna al ruolo di “angelo del focolare”, si voleva al tempo stesso rivendicare un’alterità legittima, propriamente femminile nell’affrontare il politico. Il “personale” si rivelava in questo senso come possibilità di portare la propria soggettività politica come donne nel discorso pubblico e, al contempo, come necessità di discutere politicamente di ciò che, nel privato, opprimeva maggiormente le donne. La possibilità di trasporre il privato nel pubblico si declinava come disvelamento dei modi ed emancipazione dei luoghi in cui la violenza veniva perpetrata, rivelando il carattere sistematicamente violento di una reclusione del femminile sia all’interno che dall’interno delle mura domestiche. Rompere il silenzio, dunque, sia nel privato sia inserendosi come voce prorompente nella società. Il silenzio, infatti, si configura come strumento della violenza anche come silenzio della società che ammutolisce, che non risponde, che si rifiuta di accogliere le voci delle donne finendo per ridurre, con un ulteriore atto di violenza, il femminicidio e gli abusi a meri casi di cronaca isolati (spesso raccontati come “raptus improvvisi” o amori sfortunati) e non come conseguenza di un maschile sistematicamente violento e subordinante. In questo senso la società dà il suo Assenso rivelandosi propriamente Assente, disconoscendo le cause della violenza sulle donne, impedisce la costruzione di un maschile non abusante e limita la possibilità espressiva della donna stessa.
Immagine in evidenza: Laura Avondoglio, Silenzio/Assenso, 2022. Acrilico su tela.