Spazio condizionato 

Opere di Ruggero Baragliu, Samuele Pigliapochi, Angelo Spatola in due mostre presso IDEM Studio

di Maria Elena Marchetti

Un centro ha bisogno di un intorno per definirsi centro. 
Una periferia ha bisogno di un punto per definirsi periferia. 
Un punto attorno al quale l’occhio e lo spazio possano costruire un territorio che, man mano che ci si allontana dal quel centro, venga categorizzato come màrgo. 
Ma chi definisce quel centro? E soprattutto, chi definisce una scala gerarchica tra gli infiniti centri che appartengono ad uno spazio? L’atto della territorializzazione viene compiuto dall’uomo ed inizia con il nomadismo, che era una delle principali modalità per abitare il Pianeta. 
Sicuramente è un tipo di territorializzazione più debole di quella che vediamo oggi, ma risponde a tutti gli elementi che la identificano: reificazione, denominazione, strutturazione. 
Se l’esasperazione di tali elementi porta alla gentrificazione, ovvero ad una modificazione socio-culturale, meditata e voluta, a seguito dell’acquisto di immobili da parte di persone facoltose in comunità più povere (periferiche), l’esasperazione dell’assenza di tali elementi a che cosa potrebbe portare? E se provassimo a cancellare ogni traccia capace di richiamarci alla spazialità, come fossimo noi i protagonisti del lungometraggio di George Lucas THX1138: annegati in un spazio, bianco, che fatica ad essere tridimensionale. 
Anche il colore ci è negato e da qualunque parte ci si volga non c’è neppure l’immensa volta azzurra ad appoggiarsi, in tutte le sue parti, sulla Terra.
Ed è in questo non-luogo che Ruggero Baragliu, Angelo Spatola e Samuele Pigliapochi ci scagliano con Aria Condizionata. Ci invitano ad entrare in un vortice bianco che spazza via la cardinalità dello spazio. Perduti nel bianco, riflettiamo sul bianco. 
Il bianco del cielo truccato di bianco. Il coraggio che viene spazzato via dalla fissità di uno sguardo, bianco. E noi, come fruitori spettrali ci aggiriamo tra le profondità di galassie di latte e monumenti di ghiaccio. Non abbiamo più nessun punto al quale ancorarci per costruire l’intorno. 
Non vi è un centro, non vi è una periferia. 
Monumenti serpentini, quelli di Ruggero Baragliu, che come colonne snodate di un tempio bianco, fanno capolino tra il bianco; coralli che segnano a fatica l’orizzonte, per poi (ri)fondersi nel bianco.
Come porte d’accesso, o di fuga, appaiono le minuziose stratificazioni di luce di Angelo Spatola, che s’innalzano come lame glaciali; ordine al caos, racchiudono con sfrontata ferocia tutti i colori. Sipario bidimensionale è la lingua bianca di Samuele Pigliapochi, che stenta a traboccare dall’umida nebbia lattiginosa. 
Ma in Tarapìa Tapiòco l’intorno c’è.  
Anzi, è proprio la periferia ad accogliere le opere dei tre artisti. 
Uno spazio apparentemente lontano rispetto al luogo in cui lo spettatore si trova; rispetto al proprio centro. Così lontano che anch’esso diventa non-luogo: non è raggiungibile, perché non esiste. 
L’illusione prospettica di sfondamento dello spazio costringe nuovamente lo spettatore a perdere la propria spazialità. Le opere di Baragliu, Spatola e Pigliapochi vengono risucchiate dall’inganno di quest’intorno: si deformano, si riducono, nel loro tentativo di resistergli. 
E allora dove si situano, qui, centro e màrgo?

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