di Carlo Michele Schirinzi
Fuori dall’Arca, nella trama d’un velo acquatico annegato dai graffi – come il Cristo Velato della Cappella Sansevero –, sacr’erotico della morte fisica, nudi sconnessi, levitano in acque come feti morti ancor prima di nascere.
Segno, al tempo stesso conoscenza e dimenticanza, archiviazione e cancellazione del visto e del vissuto, urlo imploso conficcato tra le costole della carta – come frassino nel cuor vampiro – a ribadire “se non tocco non vedo” al posto di “se non vedo non credo”: la ferita è sempre occhio in lacrime che brama immersione di polpastrelli.
Dentro l’Arca, disperatamente orgiastici godono d’esser salvi. L’Arca affonderà? Chi l’ha comandata è fuggito lasciando i figli in balìa di onde a cavallo dei corpi spenti dei fratelli: naufraghi, ancora in vita, cedono al sesso per spegnersi in definitivi coiti.
Di-segno, incessante nervosa carezza tesa a consumar la pelle – la mano è mente, non solo per Focillon –, grafite e china ripercorrono periferie di corpi e volti edificando nuovi sentieri. Portare su carta non è copiare ma riesumare in altra vita perché, pur restituendo un soggetto il disegno non è mai la sua copia: ceci n’est pas une pipe o “ferita era la benda e non il braccio” (Bene/Macbeth).
Il (mio) segno è carezza e la carezza è sempre graffio a nervi allentati, lesione inferta a cancellar fattezze e riconoscibilità…mentre le voci annegano tra silenziosi grovigli e scarabocchi d’ira.