di Anna Maria Monteverdi
Nel 2000 ho proposto e realizzato a La Spezia un progetto di arte urbana in collaborazione con la critica d’arte Viviana Gravano, dal titolo Luoghi comuni, basato sullo studio delle periferie, a partire dagli studi e dal libro dell’architetto e urbanista spezzino Daniele Virgilio. Un gruppo di fotografi ha riletto i problemi dell’abitare in periferia e il risultato è stato una serie di fotografie di grande formato installate negli spazi pubblici della città come forma di denuncia sociale e protesta creativa.
Luoghi comuni nasceva da una riflessione sulle criticità dei piani urbanistici per le periferie che attribuivano maggiore importanza all’espansione edilizia piuttosto che alle relazioni ambientali e sociali e alla memoria storica dei luoghi, oltre che alla qualità abitativa. Gli artisti selezionati dovevano focalizzarsi sui “paesaggi invisibili” della città, collocati in un’area distante dal centro storico, nell’intento di far emergere storie ed elementi costitutivi dell’identità di un luogo: il percorso urbano, il tessuto sociale, lo spazio collettivo, la memoria, la natura. Parallelamente si univa un altro tema – che oggi sarebbe proprio di una metodologia attivista e partecipata – di uno sguardo sulla città al servizio della sua crescita e del benessere della comunità. L’arte come strumento indagatore dei punti deboli e critici della città per ispirare una nuova idea di pianificazione territoriale, potenzialmente utile nella programmazione degli interventi e nelle eventuali decisioni relative alla definizione funzionale degli spazi pubblici.
Le suggestioni venivano da più parti, primo tra tutti dalla lettura dello storico libro scritto negli anni Settanta dall’urbanista e architetto statunitense Kevin Lynch, L’immagine della città: l’esperienza collettiva di queste geografie ai margini si orientò sia pur in modo non sistematico, intorno a una possibile mappatura visiva e una localizzazione dei cinque contenuti dell’immagine pubblica della città elencati da Lynch: i percorsi, i margini, i quartieri, i nodi e i riferimenti. Daniele Virgilio, ricercatore indipendente che sarebbe diventato, negli anni successivi, il responsabile dell’ufficio del Piano urbanistico del Comune della Spezia spiegò al gruppo i suoi studi sulla città espansa, le sue riflessioni sulle periferie che proprio in quegli anni prendevano forma in articoli su riviste specializzate di architettura, e furono di enorme aiuto come approccio metodologico. Con lui gli artisti sono andati alla scoperta della campagna urbanizzata spezzina e delle diverse traiettorie e linee di confine: vecchi tratturi, stagnoni, paludi bonificate, aree industriali mescolate a sopravvivenze agrarie. L’oggetto dell’indagine, seguendo le indicazioni dell’architetto Virgilio, era la periferia come risorsa, non come area “rifiutata”, degradata e subalterna, e l’obiettivo era quello di ridisegnare “luoghi comuni” dando vita a immagini che implicassero la volontà di raccontare alla città il contesto, gli abitanti e le condizioni di vita in quartieri storicamente marginalizzati. I concetti-chiave erano: identità in continua trasformazione, aree sottoposte a continue riqualificazione, condizione di frontiera tra diversi modi di “abitare” (industriale e agricolo).
Luoghi comuni si articolava in un percorso alla riscoperta del territorio della Spezia e delle comunità che la abitavano, delle problematiche urbanistiche, ambientali e sociali attraverso la fotografia per mostrare il disagio abitativo, le minacce ambientali, il degrado per trascuratezza e abbandono. Insediamenti di piccole comunità contadine con tanto di orto e animali da cortile sotto i tralicci della centrale elettrica, o quartieri popolari dalla tipica edilizia a blocco all’ombra delle ciminiere, tra stagni avvelenati di liquami industriali e cemento a coprire antichi corsi d’acqua e brandelli di edifici storici risparmiati dall’espansione urbana. Intere aree di paesaggio sottratte allo sguardo da cattedrali di container: gli artisti si concentrarono sull’aspetto dell’immagine della città cercando di “trattenere gli oggetti” che rappresentavano il cuore del discorso sulla periferia diventandone il simbolo: la ciminiera dell’Enel, il campo coltivato circondato da cemento, il biliardino del circolo Arci, unico luogo di ritrovo degli abitanti, un laghetto con cigni nell’area più inquinata della città; la dimensione quotidiana dell’abitare, insomma, attenta al protagonismo dei piccoli luoghi e delle piccole aggregazioni sociali, alla dimensione minima dei paesaggi abitativi.
Il tema degli spazi pubblici, delle aree in attesa di identità, abbandonati diventava una riflessione su come operare una loro trasformazione in luoghi maggiormente vivibili. Un contributo teorico importante fu dato anche dal critico fotografico Viviana Gravano, incaricata di selezionare gli artisti e definire l’impianto progettuale e curatoriale, istruendo sui temi dei luoghi anonimi, di passaggio, i cosiddetti “non luoghi” (termine molto usato all’epoca per la diffusione in Italia dell’omonimo libro di Marc Augé), ma soprattutto sull’ “attivismo paesaggistico” che poi sarà alla base del suo libro Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione. L’attivismo paesaggistico nell’arte contemporanea. In particolare gli artisti lavorarono intorno a un testo critico che la Gravano aveva scritto appositamente per il progetto dal titolo Vivibilità e che portava a interrogarsi, dopo una ricognizione nelle aree periferiche, sui principi che governano una reale vivibilità sul territorio. In sostanza la Gravano invitava dopo la ricognizione e lo studio del territorio, all’interrogativo: «Cosa può fare l’arte. Cosa può fare l’immagine in una situazione come questa? Raccontare? Denunciare? Agire in qualche modo? Solo raccontare sarebbe cronachistico e sarebbe un modo per non ricercare in questo contesto qualcosa in più di una constatazione dello stato delle cose».
Le opere originali create da giovani artisti furono esposte dal 12 al 30 ottobre 2000 sia in una galleria d’arte al chiuso e all’aperto, affisse nella Piazza del mercato e dentro le stazioni ferroviarie, nelle sale d’attesa.
I tabelloni che da sempre ospitano segnaletiche stradali e immagini pubblicitarie, furono scelti come spazi espositivi urbani dell’arte in funzione straniante, per ospitare le gigantesche fotografie di Enrico Amici, Roberto Buratta, Jacopo Benassi, Sara Fregoso, Mario Commone e Daniele Virgilio. Le opere hanno riportato la periferia dentro la città, catturando l’attenzione negli spazi di passaggio, di attraversamento, rendendola un paesaggio comune, un luogo comune.
Bibliografia di riferimento
Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio Venezia 2006
Daniele Virgilio, Alcuni sguardi sul progetto dell’abitare. La periferia dallo sguardo zenitale alla visione ad altezza d’uomo, in «Urbanistica», n.124, 2004
Daniele Virgilio, In questo luogo distante. Quaderno di una periferia, Cut up edizioni, La Spezia 2015
Viviana Gravano, Crossing. progetti fotografici di confine, Costa & Nolan, Genova 1998
Paolo Desideri e Massimo Ilardi, Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Costa & Nolan, Genova 1996.
Viviana Gravano, Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione. L’attivismo paesaggistico nell’arte contemporanea, Mimesis, Milano 2008.
immagine in evidenza: Fotografia di Sara Fregoso nel tabellone, Fotografia di Enrico Amici