di Stefano Faravelli
Itre quadri qui riprodotti sono accomunati dalla suggestione fortissima che ha esercitato sulle mie creazioni il shakespeariano Sogno in una Notte di Mezz’estate.
Vero magnete dell’immaginazione , come testimonia la galleria di John Boydell (1790) e la straordinaria efflorescenza dei temi shakespeariani nella pittura fairy nell’età vittoriana, confluita anni fa nella memorabile mostra alla Royal Academy (1997-98).
Sento da sempre una solidarietà fraterna con quei pittori del tardo Ottocento, i Damby i Paton , il veggente pazzo Richard Dadd, il Bosch in sedicesimo John Anster Fitzgerald… Pittori forse minori ma membri di una più vasta confraternita che annovera tra le sue fila anche giganti come Fussli, Reynolds, Blake, Turner.
Questa vocazione a cantare i notturni tripudi, a narrare le meraviglie del Regno Segreto, (come lo aveva battezzato il reverendo Kirk) , mi appartiene in nome di un lascito aureo, racchiuso in memorie infantili , molto precise, del fatato e del fatale.
Questo nucleo originario, davvero fondante, l’ ho poi sviluppato in ambito filosofico (Gaston Bachelard…) ma soprattutto orientalistico.
Alla domanda che Dante rivolge all’imaginativa: “chi muove te, se’l senso non ti porge?”(Purgatorio XVII, 12), il pensiero occidentale non ha risposto in modo organico, non ha elaborato una teoria dell’immaginazione attiva, salvo forse qualche neoplatonico rinascimentale o rari ed ermetici teosofi nordici. Lo hanno fatto invece, da secoli e sottilmente, i metafisici dell’Islam e le dottrine psico–fisiologiche del buddismo e dell’induismo.
Devo ai primi soprattutto la nozione di mundus imaginalis, lo ‘Alam al Khayal : un mondo autonomo che ha un’esistenza oggettiva totalmente indipendente dall’uso che noi facciamo della nostra facoltà immaginativa. L’intera mia opera indica a quel mondo con ostinazione e coerenza.
Va da sé che invito i decifratori ad avvicinarsi a queste opere in punta di piedi per non svegliare le dormienti. Ponendo mente al fatto che in esse il silenzio è figura di quanto Titania promette a Bottom (atto III, scena I) : “un rimedio che sappia purgare le nostre anime dalla mortal pesantezza” “And I will purge thy mortal grossness.”